Pubblicato da: pades | 18 gennaio 2016

Carne: perché la IARC ha ragione

L’allarme lanciato dalla Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro su carni conservate e carne rossa ha spiazzato tutti. Ma era ora che si cominciasse a parlare di cibi veri e non più dei loro componenti.

Mucca

Mucca

Inserire la carne conservata (processed meat) nella classe più alta delle sostanze cancerogene per l’uomo (classe 1) e quella genericamente “rossa” nella classe 2A (la seconda in ordine di gravità, quella del “probabilmente cancerogeno”) ha fatto tremare milioni di tavoli e sedie qua e là per il mondo. Intere aziende si sono sentite in pericolo e quasi tradite dagli scienziati nutrizionisti, che un attimo prima continuavano ad affermare che la carne era un validissimo alimento per la qualità delle sue proteine e l’apporto di ferro a basso tasso di calorie, un attimo dopo la cacciavano dalle cucine con l’infamante marchio del cancro.

Se avete seguito il dibattito successivo alla notizia avrete notato una cosa: quasi tutti prendevano le difese della carne e dei salumi italiani dicendo che la IARC aveva generalizzato, che il rischio assoluto rimane “basso” e che il vero responsabile sarebbe alla fine un gruppo di sostanze coinvolte più nelle modalità di consumo che la carne stessa:

  • Ammine eterocicliche, idrocarburi policiclici aromatici e diossine (tutti cancerogeni) derivati da fumo e cottura ad alte temperature
  • ferro eme, che quando in eccesso produce il pericoloso radicale libero ossidrile
  • nitriti negli insaccati, che nel processo digestivo diventano pericolose nitrosammine

Sarà così? Può essere, e la stessa IARC lo ha detto chiaramente: la gigantesca review (800 studi) alla base dell’inserimento nei gruppi 1 e 2A non stabilisce i meccanismi, ma evidenzia con certezza l’associazione fra queste carni e il cancro. Il rischio di ammalarsi a causa di insaccati e bistecche è relativamente basso, ma c’è. Esattamente come per l’alcol.

È proprio qui il punto: per anni abbiamo detto che le indicazioni alimentari e le linee guida devono andare nella direzione dei cibi veri e non dei componenti o di singoli principi attivi, e adesso che per una volta arriva un’indicazione che più pratica di così non si può non va bene? Se avessero messo nella classe 1 “la cottura al barbecue” o “l’uso dei nitriti come conservante” avrebbero complicato la faccenda: etichette dei salumi da esaminare (per un prosciutto crudo senza nitriti ce ne sono venti con, e chi si ricorda a memoria le sigle E249 o E250?), discussioni infinite da parte di quelli che “io il barbecue lo so fare, non faccio mica fumo come voi altri” e via azzuffandosi, fino all’oblio mediatico dell’allarme iniziale.

Invece l’indicazione che ne deriva è, per una volta, chiara: evitate la carne conservata e anche con quella rossa andateci piano. Semplice, comprensibile a tutti, anche a chi non sa nulla di biochimica e processi industriali. Non si può dire che con l’industria alimentare ci siano andati leggeri, stavolta.

Per le bevande alcoliche (etanolo: classe 1) è noto da tempo, ed è solo questione di tempo e arriverà la notizia anche per il caffè. La tostatura produce una quantità di acrilammide (classe 2A) che non può più essere ignorata, anche se la presenza di polifenoli può mascherare l’effetto finale nel complesso della dieta. I polifenoli del caffè sono così abbondanti che nelle junk-diet di tipo nordamericano (poche verdure e poca frutta) rappresentano addirittura la fonte preponderante di antiossidanti, dunque facendo la review di tutte le ricerche i fattori confondenti andranno isolati con maggior fatica e attenzione. Ma è solo questione di tempo.

D’altra parte guardando il tutto da un punto di vista più ampio fate caso a questo: i cibi coinvolti in questi allarmi sono sempre forzature rispetto ad un’alimentazione veramente naturale, che da un punto di vista strettamente teorico (anche se “socialmente” poco sostenibile) dovrebbe essere composta di alimenti il più possibile vicini alla loro forma integra e originaria e non trasformata, conservata, raffinata. Ripeto: per come è strutturata la nostra società abbiamo ormai una serie di vincoli di cui tenere conto (disponibilità alimentare, conservazione dei cibi e sicurezza sanitaria) ma questo non toglie che l’uomo in fondo è ancora un primate che per milioni di anni si è evoluto adattandosi (e pure a fatica) ad una precisa serie di alimenti, e fare tentativi al di fuori di questo insieme di cibi può esporre a rischi biochimici e fisiologici, c’è poco da fare. In alcuni casi può andare bene, in altri meno, e dobbiamo tenerne conto studiandone gli effetti a lungo termine. Fa parte del metodo per prove ed errori con il quale l’uomo ha valutato, nel corso dei millenni, i vari alimenti. Più empirico in passato, più scientifico adesso.

Ecco perchè la IARC ha ragione, e questo approccio “per cibi” piuttosto che “per sostanze” è giusto. La carne va consumata con parsimonia: facciamocene una ragione e vivremo tutti meglio. Anche il pianeta.

Pubblicato da: pades | 26 agosto 2015

Integrale a chi?

Farina integrale: “ricostituita” o “vera”? Trovare quest’ultima può essere più difficile di una caccia al tesoro. E soprattutto… ne vale la pena?

Mulino

Mulino

Doverosa premessa: questo non è un post polemico con l’industria alimentare moderna, i mulini, la grande distribuzione o chicchessia. Anzi. Più che altro è la constatazione di come siamo riusciti a rendere difficile anche solo trovare una manciata di farina macinata a dovere. In questo periodo sto meditando sulla sostenibilità (economica, sociale e pratica) dell’alimentazione naturale per tutti, dunque dobbiamo fare i conti con sovrappopolazione, domanda in aumento, disponibilità costante, sicurezza sanitaria, costi. Questo sarà oggetto di una imminente serie di post su “come e perché cambiare veramente e definitivamente la dieta”, ma ne riparleremo, dunque per ora facciamo così: comincio a scrivere, vi espongo i fatti e vediamo cosa viene fuori.

Se andate al supermercato e passate dalla corsia delle fette biscottate, ormai puntate a quelle integrali vero? Bene, bravissimi, allora diamo un’occhiata alle etichette: su due pacchetti di due marche diverse leggete “Fette biscottate integrali”. Perfette entrambe. Ma negli ingredienti trovate da una parte “Farina integrale di frumento, …” e dall’altra “Farina di frumento, cruschello (10%), …”. Allarme rosso! Siamo in presenza di una temibile farina integrale ricostituita, cioè ricavata mettendo insieme farina bianca e crusca? Ma allora come possono scrivere “Fette biscottate integrali”? Possono, ed è perfettamente legale (1). Ma la cosa ancora più interessante è che probabilmente anche il primo pacchetto è fatto con farina integrale ricostituita, e non lo sapremo mai. Se vi spostate verso i biscotti è la stessa cosa, e anche i crackers, i pani speciali, e probabilmente anche il pane integrale, sia confezionato che fresco, al banco. Panico? Vi lascio un paio di minuti per riprendervi, poi proseguiamo.

Ripresi? Bene, perché questo è ancora più spiazzante: la cosa non ci deve preoccupare più di tanto, ma questo lo vedremo alla fine. Per il momento vediamo perché succede.

Non vi sto a fare la storia completa della molitura se no il post diventa prolisso e non lo legge nessuno, cerco di riassumere: è ovvio che la migliore farina integrale in assoluto è quella fatta prendendo una secchiata di grano tenero e, una volta pulito e lavato, macinandolo al momento dell’uso nella finezza desiderata. In questo modo si conserverebbero sia il prezioso e delicatissimo germe che tutto il rivestimento (crusca, cruschello), per non parlare del profumo. Questo sarebbe possibile avendo un piccolo mulino casalingo (poco praticabile, costoso, utile solo se utilizzato da una piccola comunità) o un mulino artigianale a macina nelle vicinanze a cui rivolgersi (ce ne sono sempre meno, purtroppo, e comunque non in grado di soddisfare le richieste di tutti, ormai).

Chicco di grano

Chicco di grano

È per questo che da circa 150 anni sono stati introdotti i mulini a cilindri di ghisa accoppiati, capaci di rese altissime in termini di quantità e tempi di molitura, e soprattutto in grado di produrre farine con piccolissima granulometria (la famosa “00”, che i mulini a macina non riescono a lavorare). Non pensate che la cosa sia stata fatta con cattive intenzioni: in epoche con scarsità di risorse era sacrosanto cercare di sfruttare al massimo le capacità nutritive di un alimento, e le farine bianche avevano quello scopo. La grande differenza fra i mulini a macina e quelli a cilindri, a parte la presunta diversa temperatura d’esercizio (non sempre vero, può essere giusta o troppo alta in entrambi i casi) è che i primi sono fatti per tritare finemente il frumento e poi tentare di setacciarlo per togliere parte della crusca (considerata in passato un difetto perché antinutritiva), mentre quelli a cilindro sono congegnati per pelare in successione gli strati del chicco passando attraverso vari livelli di cilindri (anche una quindicina di coppie, strutturate in grosse costruzioni alte più piani), setacciarli (abburattamenti successivi) e trovarsi alla fine con le varie componenti del chicco separate in diversi flussi. A quel punto il mulino, a seconda del prodotto finale richiesto, può rimiscelare con precise percentuali le diverse parti del chicco e proporre farina bianchissima “00”, “0” o le più rustiche “1”, “2” o “integrale”, fatta miscelando (di solito) farina “0” e crusca e/o cruschello. Del germe di grano non c’è più nessuna traccia: considerato una grave minaccia alla conservabilità della farina a causa dei sui ossidabilissimi grassi insaturi che irrancidiscono in pochi giorni, viene eliminato già al primo livello di cilindri. In quel primo passaggio la crusca viene sbucciata via a piccole lunghe lamelle e il germe salta via come una scaglietta piatta di pochi millimetri, facilmente separabile tramite i primi setacci (buratti) dalle lamelle di crusca e dal resto del chicco ancora in grossi frammenti. Va detto che esistono anche mulini a cilindro che riescono a produrre farina integrale quasi completa intervenendo sui primi livelli di cilindri per non scartare nulla, ma sono una minoranza perché il processo non è congeniale a questa tecnologia.

La procedura del “dividi e ricomponi”, secondo la normativa (per i precisini, vedi nelle note (1) la legge 580/67 e successivi decreti e circolari ministeriali) è una normale tecnica produttiva all’interno del mulino, e in più i regolamenti pongono limiti tecnici alla “farina integrale” che deve rimanere in un ben preciso intervallo di ceneri (come da tabella qui sotto), rendendo di fatto necessario lavorare sui singoli componenti per gli aggiustamenti del caso.

Farine

Farine

Nella maggior parte dei casi il grano tenero nella sua completezza ha ceneri maggiori di 1.7 (fino a 2.2%, come in parte contemplato dalle più realistiche normative tedesca e francese), dunque è in pratica obbligatorio togliere (o meglio, non rimettere) parte della crusca per poter rientrare nei parametri e venderla al pubblico usando il termine “integrale”. Notare che la normativa (un vero ginepraio, mi ci sono voluti giorni per capirci qualcosa) è ancora più contorta perché con circolari e decreti successivi (decreto 187/2001 e circolare 168/2003) specifica che la tabella sopra si applica solo per la panificazione (a volte viene citata la vendita al pubblico ma non sempre) e non per gli altri settori produttivi (tra cui le forniture fra industrie e la produzione dei “prodotti da forno”, come le nostre fette biscottate, cioè quello che non è formalmentepane”)(2). Paradossalmente, un vero, autentico pane integrale fatto con una farina completa macinata al momento non sarebbe neanche etichettabile come “pane” ma solo come “prodotto da forno”, se le ceneri della farina di partenza fossero fuori norma.

Dunque, a parte le poche macinate a pietra, ci troviamo quasi sempre di fronte a farine integrali di fatto ricostituite, e i prodotti derivati sono riportati come integrali. Detto questo, nascono diverse considerazioni interessanti:

  • La farina integrale ricostituita è più appetibile per i panettieri, l’industria del pane e quella dei prodotti da forno (ma anche a casa) perché la granulometria “0” della parte amidacea rende più standardizzabile, efficiente, soffice ed economica la lievitazione dei prodotti integrali, quasi paragonabile ai corrispondenti “bianchi”.
  • Riguardo le nostre due fette biscottate, nel primo caso il produttore ha acquistato dal mulino la farina già “integrale” (ricostituita/miscelata probabilmente in fase di molitura), nel secondo si è rifornita separatamente di farina “0” e cruschello, miscelandoli al momento dell’uso. Le nuove norme su etichettatura e tracciabilità dei lotti (decreto legge del 17/12/2013) hanno come effetto indiretto che il diverso metodo di fornitura risulta in etichetta, anche se il risultato è lo stesso.
  • Il germe di grano non viene neppure considerato dalla normativa: nella circolare 168/2003 che dovrebbe fare chiarezza circa il decreto legge 187/2001 (aiuto!) si legge “… Il termine «integrale», infatti, implica la presenza di crusca e/o di cruschello in quantità tale da assicurare un significativo apporto nutrizionale di fibre nel prodotto finito. La crusca/cruschello sono, infatti, gli unici elementi che differenziano la farina di frumento integrale dalla farina di grano tenero…”. Capito? La crusca è l’unica differenza fra farina “00” e integrale… Va detto che si riescono a trovare farine integrali con ancora il germe: sono comunque prodotti di nicchia e vengono confezionate in sacchetti di plastica in atmosfera protettiva per non farne irrancidire i grassi.
  • È sbagliato, come dicono alcuni siti web, fare conti sui grassi totali riportati sulle tabelle nutrizionali delle farine per capire se c’è il germe o no. L’idea è che più questa percentuale è alta più si è sicuri che sia integrale “vera”. Ma nel frumento tenero i grassi possono oscillare in base alla varietà dal 1.9% al 2.6%, mentre il germe, che rappresenta solo il 3% del chicco, pur con il suo 9.5% di lipidi muove sì e no lo 0.3% dei grassi totali, contro la crusca (17% del chicco) che con il 5.5% ne muove più del triplo (1%) sul totale del chicco. Difficile dunque dire con sicurezza se una farina con il 2% di grassi totali abbia o no il germe, non sono calcoli attendibili.
  • Questo ci fa capire piuttosto quanto poco possano incidere i grassi pur eccellenti (da crudi) del germe: in 100 g (una bella porzione) di farina integrale “vera” sarebbero sì e no 0.3 g, una micro-punta di cucchiaino contro ad esempio i 10-12 g (30 volte di più) di una porzione da 20 g di semi oleosi come noci, nocciole, mandorle, pistacchi. In più il germe, una volta allontanato dal resto del chicco e dalla vitamina E che lo preserva, irrancidisce a velocità luce, e anche se lo usassimo subito la cottura lo degraderebbe comunque, lui e pure la vitamina E. Molto più imponente dunque l’apporto di vitamina E, antiossidanti vari e grassi insaturi che deriva da semi oleosi e olio (oliva, girasole, ecc.), che si consumano per di più crudi. Ben venga dunque il germe, ma non è l’ago della bilancia.
  • Oltre al germe, un’altra grossa differenza fra integrale originaria e ricostituita è invece come già detto la granulometria finale della parte amidacea: nella farina integrale macinata a pietra la parte centrale del chicco, l’endosperma, rimane a “grana più grossa”. Questo ha due effetti durante la digestione: viene digerita più lentamente dagli enzimi dell’apparato digerente dunque l’indice glicemico (per quanto inutile) rimane più basso, ma in più (grazie alle fibre) l’aumentata velocità di transito fa sì che probabilmente parte degli amidi non vengano neppure assimilati (dunque anche il ben più importante carico glicemico rimarrebbe più basso). Questo “mancato assorbimento” era una tragedia in periodi di scarsità alimentare, ma un toccasana al giorno d’oggi in cui tutti cercano di assumere meno calorie, e potrebbe fare la differenza. Potrebbe. Infatti ci sono tre punti deboli in questo ragionamento:
    • Se il transito intestinale (molto soggettivo) non è così veloce, alla fine i nostri efficienti enzimi digeriscono anche la grana più grossa, dunque potrebbe cambiare poco. I granuli di amido del frumento sono di 10-30 micron, e la differenza fra i poco meno di 100 micron della “0” rispetto ai 250 micron della “2” e dell’integrale è poca cosa rispetto ai giganteschi granuli di amido che derivano ad esempio da grano intero (zuppe, muesli) semplicemente masticato.
    • Se proprio vogliamo diminuire il carico glicemico (con la fibra l’indice glicemico rimane comunque più basso) basta non mangiarne in eccesso (e questa sì è la reale difficoltà al giorno d’oggi).
    • L’eventuale amido non digerito, proseguendo verso il colon, viene sicuramente assalito con entusiasmo dai batteri intestinali, fermentando (ecco perché a qualcuno l’integrale genera gonfiore invece che sgonfiare come sarebbe logico).

Dunque, concludendo, le etichette e la normativa non consentono di capire al volo se una farina integrale (venduta così o usata per pane, biscotti, prodotti da forno vari) proviene dall’intero chicco macinato o è stata ricostituita. Ma non dobbiamo preoccuparcene più di tanto, perché per i motivi visti sopra la differenza fra quella vera e quella ricostituita è, nel complesso della dieta, poco importante, di gran lunga meno importante di quella tra il consumo di prodotti “bianchi” piuttosto che integrali. L’integrale va preferito in ogni caso, senza preoccuparsi troppo della farina utilizzata. Se servono regole semplici, questa è una. E poi i cereali integrali li consumiamo anche in chicchi interi (minestroni, zuppe, muesli, …), vero?

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Note:

(1) Per i più temerari, e soprattutto per chi non va su tutte le furie né si fa venire l’ulcera leggendo documenti sconclusionati e dall’italiano disarmante, riporto i link ai vari decreti legge e circolari ministeriali. Ci ho messo parecchie ore a riprendermi dalla lettura, ma qualcuno doveva pur sacrificarsi. Se volete aprire un gruppo di auto-aiuto per chi è costretto a studiarsi la normativa fatemi sapere, aderisco subito.

  1. Legge 580/1967 versione originale: il punto di partenza per regolamentare farine, pasta e pane. È stata la colonna portante della normativa fino al 2001 e in parte lo è ancora oggi (versione che tiene conto delle successive modifiche, quella in vigore ad oggi: 580/1967_aggiornata)
  2. Decreto Legge 187/2001: ha puntualizzato le norme della legge 580/1967 inquadrando farina integrale e suoi usi e integrato, sostituito o abrogato articoli della 580/1967
  3. Circolare 168/2003 del Ministero delle Attività Produttive (ci interessa il capo A): erano emerse parecchie controversie sull’interpretazione delle norme precedenti, questo decreto tenta di fare luce. Fra le altre cose ribadisce che per i “prodotti da forno” non è necessario restare nei parametri legati al “pane”
  4. Decreto del 17/12/2013: introduce una serie di norme sul trasporto, il commercio e la conservazione degli sfarinati e dei cereali. Una conseguenza indiretta è che per rendere tutto tracciabile le aziende devono indicare in etichetta i singoli ingredienti, se acquistati e stoccati separatamente

(2) Per la farina di grano duro e la pasta c’è, nelle stesse leggi e decreti vari, una normativa parallela e perfettamente analoga a quella per il grano tenero. Con gli stessi identici problemi.

Pubblicato da: pades | 31 luglio 2015

Scienza e nutrizione, ma a volo di drone

Il mondo delle ricerca scientifica è come un mercato, dove i banchetti sono i gruppi di ricerca, i prodotti sono gli studi, e i clienti?

Mercato

Mercato

Comodamente seduti in autobus, leggete dell’ennesima ricerca: l’assunzione giornaliera di un bicchiere di latte per un mese ha aumentato del 5% l’incidenza di forfora in un gruppo di cinquanta studenti fuori corso del Midwest: smettete di bere latte, vero? Per sempre, giusto? Diventate crociati invincibili contro il turpe predominio degli allevatori di vacche pezzate, sì? Ditemi che lo fareste, altrimenti siete una vera eccezione. Va bene, voi probabilmente non lo farete, ma qualcuno sì, statene certi. I nervi dei ferventi internettologi sono ormai a fior di pelle, basta un nonnulla per scatenare l’inferno. Gli stessi che poi, appena cerchi di calmarli, ribattono che l’uomo è l’unico animale che beve il latte di un’altra specie. Ah ecco. Ok. Mi arrendo. Smettete pure di bere latte allora, ce ne sarà di più per gli altri. Sì, sì, è un gomblotto, avete ragione.

Ma non è colpa loro, o meglio, non solo. È colpa loro perché invece di studiare scienze al pomeriggio, dopo la scuola, andavano alle giostre o a tirare sassi ai piccioni (e ora sanno tutto perché usano google), ma è colpa anche di chi, sapendo bene che il pubblico è anche questo, diffonde notizie di scienza con la stessa attenzione con cui raccoglie le deiezioni del proprio cane durante la passeggiata. A proposito, se volete smettere di leggere fatelo subito, altrimenti non lamentatevi, ok?

Prendendo in mano una rivista di cinque anni fa si leggeva che i grassi saturi erano la maggior causa di morte, ma adesso no, per carità, i saturi sono un toccasana, basta che siano a catena corta, badate bene. E i cibi grigliati o, sventura delle sventure, bruciacchiati? Fino alla scorsa estate erano più mortali della morte nera, ma oggi no, se sono vegetali potete mangiarli anche carbonizzati, anzi magari fanno perfino bene, chiosano le riviste femminili. Conosco un tizio che da quando ha letto che “il licopene, un toccasana per la prostata, è più assimilabile nei pomodori cotti”, si rifiuta categoricamente di mangiarli crudi, “che oltretutto crudi acidificano”, dicono su internet. Ferma, ferma tutto ragazzi, mettiamo un po’ di ordine.

Questo isterismo è dovuto alla non conoscenza del metodo scientifico e all’eccessiva importanza che viene data ad ogni singola ricerca, come fosse la parola ultima e definitiva su un argomento. La ricerca appare, all’occhio superficiale, come un rumoroso e caotico mercato, con le sue migliaia di voci, le urla, la miriade di colori e di prodotti, un po’ come quello della foto in alto. E giù a criticare la scienza, accusata di essere confusa, caotica e contraddittoria. Il problema però non è la scienza, ma come viene interpretata. E una delle cause maggiori è l’incomprensione del suo riduzionismo. Se osservate un banchetto del mercato che vende viti e bulloni, vi aspettate forse di avere notizie attendibili sui colori di moda questa estate o sulla qualità della frutta? Certo che no. Vi convincete che, siccome quest’anno sono molto richieste le pinze rosse, anche i pantaloni e le mele dovranno essere rossi? Neanche per sogno. Ma divulgatori e googlenauti che traggono conclusioni simili sulla scienza ne trovate, eccome.

Riduzionismo. La scienza sviluppa di continuo strumenti e metodi per andare sempre più nel dettaglio dei fenomeni. Non è raro leggere ricerche su un singolo gene del DNA, composto da una manciata di molecole, il cui unico effetto è magari rendere più o meno chiari i peli del braccio. Molti, troppi vedono questo come una pericolosa deriva della scienza, un incombente pericolo di “perdere di vista l’elefante” studiandone solo i peli della coda. Ma nessun vero scienziato smette di pensare all’elefante, mai, e credere il contrario è il primo errore di pessimi divulgatori e gomblottisti.

Interpolazione. È normale, avendo in mano alcuni elementi sperimentali, astrarre da questi una teoria più generale. In matematica esiste l’omonima tecnica grazie a cui, dati alcuni punti, posso trovare la funzione che li comprende tutti: più punti uso più la funzione è attendibile, ma li devo usare tutti. Nel metodo scientifico si usa una metodica simile: ogni nuova teoria deve soddisfare tutte le evidenze sperimentali precedenti, nessuna esclusa, anche quelle scomode. L’errore interpretativo è costruire teorie basandosi solo su alcune evidenze (ricerche e studi), quelle che fanno più comodo. Se un banchetto vende solo pere verdi, non è detto che tutte le pere in vendita al mercato siano verdi. Questa infatti non è scienza, questo lo fanno i pessimi divulgatori o chi vuole ingannarvi. Nessun vero scienziato usa solo alcuni risultati per arrivare ad una ipotesi generale, mai.

Togliamoci subito il pensiero: esistono ovviamente scienziati scorretti, corrotti o anche mediocri, ma la solidità del metodo scientifico è che sono soggetti al controllo di tutti gli altri (peer review). Ne basta solo un altro che dimostri (con un nuovo studio o prove contrarie) che questi hanno torto e l’essere scorretti o corrotti servirà a ben poco. Anche al mercato ci sono i banchi mediocri o quelli disonesti che offrono prodotti di bassa qualità o contraffatti, ma il controllo degli altri commercianti e dei clienti li eliminerà.

Se i banchi del mercato rappresentano i vari gruppi di ricerca e gli studi sono i loro prodotti, aggirarsi freneticamente per i banchi fra tutta quella confusione alla ricerca della verità non ci renderà informati, probabilmente ci confonderà sempre di più. Allora facciamo così: alziamo lo sguardo e cerchiamo una di quelle torri che dominano la piazza, andiamoci, facciamo tutte le rampe di scale fino in cima apprezzando piano per piano, dalle finestrelle, come la visione si allarghi sempre di più, e arrivati in cima mettiamo i gomiti sul davanzale e ammiriamo la nuova visuale, ora completa, di tutto il mercato. I banchi li vediamo nel loro contesto, i loro prodotti li possiamo confrontare con quelli del loro vicino, ci rendiamo conto anche di come i clienti si aggirino isterici da un banco all’altro, inconcludenti, come i divulgatori che vogliono farci credere cose assurde o i googlenauti che smettono di mangiare i pomodori crudi. Prendiamo poi un drone, di quelli che fanno quelle bellissime riprese a volo d’uccello, e liberiamolo. Possiamo dominare il mercato dall’alto o scendere di quota, fino ad arrivare al singolo banco, al singolo prodotto, e studiarlo da vicino, ma potendo sempre contare sulla visione d’insieme, rialzandolo.

Dobbiamo fare così anche con il mercato delle ricerche scientifiche sulla nutrizione, i loro divulgatori, le loro conclusioni. La torre e il drone ce li costruiamo studiando. Ci possiamo subito rendere conto se i risultati di uno studio molto particolare vengono esasperati fino ad arrivare a conclusioni di comodo, ma false: basterà alzare il drone o salire sulla torre, inquadrandoli nel contesto più generale. Da lì le cretinate appariranno in tutta la loro fragilità.

Il nostro approccio alla nutrizione funziona così, e non ci ha mai deluso.

Pubblicato da: pades | 17 luglio 2014

Premio etichetta del mese (4)

L’uso di non meglio precisati oli vegetali (spesso tropicali) abbatte davvero i costi, per il consumatore finale?

Non so dirvi perché mi piace il sud della Francia, ma è una storia di lunga data, e la frequento spesso. Mi piace il rapporto che i francesi del sud hanno con il cibo e amo perdermi per i mercati di Apt, Aix o Nizza (per ricordarne alcuni dei più grandi), ma anche quelli più piccoli di Grasse o Antibes, in cui moglie e figlio hanno dovuto trascinarmi via per salvare un contadino dalle mie domande sulle otto diverse varietà di zucchine che aveva sul banchetto. Ma anche perché, girata una curva, potete trovare questo (e purtroppo con la foto non riesco a trasmettervi il profumo della lavanda e l’assordante ronzio delle api da miele):

Metà luglio, lungo la strada da Valensole a Manosque

Metà luglio, lungo la strada da Valensole a Manosque

 Come vi dicevo, quello che mi attira è probabilmente anche la tradizione alimentare di questa regione, che si apprezza davvero girando per sagre e ristoranti piccoli e sperduti, nei quali non è difficile parlare con chi cucina. D’altra parte, come avrete capito, quando si tratta di cibo io sono lì.

Tutto questo probabilmente non vi interessa più di tanto, ma mi serve ad agganciare quello che sto per raccontarvi.

Caffè

Caffè

Perché dovete sapere che spesso, dopo mangiato e a corredo del caffè, vi portano i classici biscottini speziati, e io non potevo certo mancare di verificarne gli ingredienti e raccoglierne alcuni come documentazione, tenendoli da parte proprio per voi.

Prima di parlare delle etichette occorre precisare una cosa: i francesi sono sì molto attenti agli ingredienti che usano quando cucinano, ma sono anche super fiduciosi rispetto a quello che dice e fa lo Stato. Se ad esempio la Municipalité dice che l’acqua della rete cittadina è ottima, la stragrande maggioranza dei cittadini la darà senza alcun pensiero anche ai neonati, e per lo stesso meccanismo se un biscotto viene commercializzato è perché qualcuno ha sicuramente controllato, ed è sano come se fosse fatto in casa (ricordate le due regole dei consumatori nel post sull’agnoressia?). Teniamo sempre presente che tutto questo idillio è disturbato, come in tutta Europa, dall’annosa questione dell’etichettatura e della libera circolazione dei prodotti, ma per farla breve eccoli, con le quattro liste di ingredienti (se serve, in fondo al post ci sono le immagini del retro (4)):

Speculoos

Speculoos

– Farina di frumento, zucchero caramellato, oli e grassi vegetali (palma, colza, cocco), zucchero di canna grezzo (1.5%), farina di soia, lievito in polvere (carbonato acido di sodio), cannella (0.2%), noce moscata

– Farina di frumento, zucchero, oli e grassi vegetali parzialmente idrogenati, sciroppo di zucchero caramellato, lievito in polvere (carbonato acido di sodio, carbonato acido d’ammonio), sale, cannella

– Farina di frumento, zucchero, oli e grassi vegetali, sciroppo di zucchero caramellato, lievito in polvere, farina di soia, sale, cannella

– Farina di frumento, zucchero, oli e grassi vegetali (palma, colza), zucchero caramellato, lievito in polvere (carbonato acido di sodio, carbonato acido d’ammonio), sale, cannella

Ora, come potete vedere la metà delle etichette non indica l’origine del grasso utilizzato. Come sappiamo, dietro l’indicazione “oli e grassi vegetali” ci potrebbero essere grassi tropicali (palma, cocco, palmisti) ma non ne possiamo essere sicuri. Certo, se fosse girasole od oliva verrebbe sbandierato, ma potrebbe anche andare meno bene, ed esserci olio di colza, mentre in un caso ci sono sicuramente anche grassi parzialmente idrogenati (ma gli esperti non dicevano che non si usano più? Boh…). Nel dedalo di traduzioni l’olio di colza viene anche citato come “olio di canola” che è cosa ben diversa (1). Insomma, pur nella piena legalità (precisiamolo sempre), non c’è nemmeno l’ombra di un grasso pregiato che sia uno.

Diciamo che a questo punto, dopo aver già abbastanza compromesso il mio riposo notturno con il post sull’agnoressia, questa dei biscottini da caffè è la goccia che nel mio caso fa traboccare il vaso. E perché, direte voi? Perché usare questi grassi per un prodotto destinato ad un uso così particolare, in cui anche la qualità degli ingredienti di quello che si offre concorre all’immagine della propria attività (bar o ristorante che sia), sembra una stonatura imperdonabile, sia da parte di chi lo produce (e lo propone sul mercato) sia di chi lo acquista (e lo somministra al pubblico). Stonatura che lascia sbigottiti i clienti più attenti come il sottoscritto.

Vediamo perché, e per dimostrare quanto (per il consumatore finale) il gioco non valga la candela facciamo due conti. Qui di seguito una tabella con i prezzi all’ingrosso di alcuni grassi ad uso industriale:

 

Come vedete il prezzo è alla tonnellata (a questi livelli si parla di stock da 20 tonnellate o più), ma per comodità ho riportato anche il costo al chilo. I grassi sono riportati in ordine decrescente di prezzo, e potete abbracciare con un colpo d’occhio la differenza fra il carissimo burro e l’olio di colza (3). Sembra ormai evidente che il fattore “costo” sia sempre e comunque quello che incide di più sulle decisioni aziendali, mentre appaiono sempre meno convincenti le varie giustificazioni che vengono spesso date (minimizzando su quello del costo) circa l’uso dell’olio di palma e dei tropicali in genere, e cioè che sono utilissimi perchè allungano la vita di scaffale –shelf life- del prodotto e non alterano il gusto degli altri ingredienti. Riguardo la shelf-life, ho fatto una rapida ricerca al supermercato: biscotti con burro (considerato deperibilissimo quando si tratta di giustificare gli oli tropicali), olio di oliva, di girasole e di palma avevano esattamente le stesse scadenze (circa 12-14 mesi). Ma allora questa vita di scaffale si allunga o no? E soprattutto: ma quanto deve essere lunga questa permanenza in magazzini e negozi? Più di un anno non basta al sistema industria-grande distribuzione per venderli? Dobbiamo forse mangiare biscotti mummificati prodotti due o tre anni fa? Circa il sapore, poi, lasciamo perdere: come sa qualunque massaia è proprio il grasso che concorre in maniera determinante al gusto (pensate al burro), e per fare un ulteriore esperimento ho cercato (ed assaggiato) biscotti tipo gallette-petit (perché non hanno aromi di altri particolari ingredienti) che avessero l’olio di palma… è vero, non alterava il gusto di solo amido e zucchero… infatti sembrava cartone dolce. Senza l’aiuto di aromi (vanillina, limone, ecc.) il sapore, soprattutto usando farine bianchissime, rimane assolutamente insignificante. Il fatto di avere un gusto del tutto neutro può dunque essere considerato un difetto, non un vantaggio… (2). Alla fine, quindi, temo che sia proprio il costo il fattore che pesa di più. Ma allora al consumatore costeranno molto di meno, no? Non ne sono così sicuro…

Torniamo infatti a fare i nostri conti e prendiamo un comunissimo pacco di biscotti da 300 g. In questo pacchetto ci sono in tutto circa 50 g di grassi (in media qualche grammo in meno, ma facciamo cifra tonda). Se calcoliamo quanto la materia prima “grasso” incida sul costo dell’intero pacchetto troviamo che la forbice va dai 4 centesimi di euro (si, avete letto bene) degli oli di palma o girasole (la colza la lasciamo proprio perdere) ai 16-17 centesimi dei carissimi burro od olio extra vergine di oliva italiano (ma i centesimi scendono a 11 se l’olio EVO è ad esempio tunisino). Dunque già per un pacco da 300 g il costo vero e proprio dei grassi è marginale rispetto al prezzo finale, e a questo punto diventa evidente perché io abbia tirato in ballo i biscottini speziati da caffè: per quei micro-pacchetti (ne contengono uno, a volte due) da circa dieci grammi (quando va bene) il costo dei grassi va da 1 millesimo di euro per la palma ai 4-5 millesimi usando burro od olio extra vergine di oliva. Ma allora vale davvero la pena, per noi, che vengano utilizzati quelli meno costosi? Il risparmio per i consumatori finali (bar e ristoranti) è ridicolo (se va bene, e tenendo conto dei ricarichi, circa 6 millesimi di euro a pacchettino), mentre il vero guadagno è dei grandi produttori, poiché su migliaia di tonnellate di biscotti il risparmio diventa invece notevole. E non è neanche detto, fra l’altro, che la filiera di distribuzione faccia pagare proporzionalmente di meno i prodotti con i grassi meno pregiati. Oltre al danno, è possibile pure la beffa.

Anche queste semplici considerazioni fatte davanti ad un caffè possono aiutare a fare scelte consapevoli. Pensiamoci, quando leggiamo le etichette.

Dimenticavo, i biscottini speziati al burro o all’olio di oliva si trovano: li fanno i piccoli produttori locali, per i quali i ridotti volumi produttivi non giustificano il piccolo risparmio che si potrebbe fare usando grassi non pregiati, se questo significa perdere il gradimento dei consumatori. Un altro punto a favore della regionalità e dei mercati di prossimità (chilometri zero, filiere corte): il controllo dei consumatori è più efficace e diretto.

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(1) L’olio di colza è stato lentamente dismesso dall’uso alimentare a causa della eccessiva presenza di acido erucico (cardiotossico) nelle varietà di colza usate tempo fa, sostituite poi da una ristretta selezione di cultivar di questa pianta con una più bassa percentuale di acido erucico. L’olio che ne deriva è stato chiamato olio di canola (CANadian Oil Low Acid) per distinguerlo dall’olio di colza generico, che viene ancora prodotto ma per altri scopi (ad esempio per i bio-carburanti).

(2) Fra l’altro l’olio di palma nella versione grezza (extra vergine di palma) non sarebbe neanche da buttar via, se usato con moderazione, nei luoghi di origine (tropici) e da chi ci abita. Il problema sta nella raffinazione, che elimina i componenti protettivi (antiossidanti naturali, soprattutto betacarotene) oltre a profumo e colore ed aggrava (con i vari frazionamenti) il suo vero limite nutrizionale che è l’alta percentuale di acido palmitico, e ovviamente nell’abuso che, nel complesso, se ne fa nella dieta occidentale. Per non parlare dello scempio ecologico legato alla coltivazione intensiva delle palme da olio.

(3) Notate anche che l’olio di semi di girasole costa come quello di palma. Non è dunque un caso che molte industrie, nella forzata conversione verso materie prime percepite dai consumatori come più pregiate (incentivata dalla nuova etichettatura che esige più dettaglio), si siano gettate a pesce sul “naturalissimo” olio di semi di girasole, che essendo polinsaturo è però facilmente ossidabile e non molto resistente alle cotture ad alte temperature (ecco perché costa poco).

(4) Ecco il retro dei pacchettini. Cliccare per ingrandire.

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Pubblicato da: pades | 14 giugno 2014

L’agnoressia ai tempi della crisi

No, non mi sono sbagliato, ho scritto proprio agnoressia, con la “g”. Una parola che ho inventato tempo fa e che significa “mangiare senza informarsi”. E siccome c’è chi questa disinformazione la incoraggia ci vuole… la food guerrilla.

Gelatine

Gelatine

Sono passati più di dieci anni da quando, grazie ad un agile saggio di una giornalista americana (1), venni a conoscenza di un’usanza tristemente diffusa nella classe lavorativa medio-bassa di laggiù: sapendo che per affrontare la faticosa (e in genere sottopagata) giornata sarebbero servite 1.000/1.500 Kcal, la scelta per la pausa pranzo cadeva sui cibi industriali a più basso costo e più alta energia. Era dunque frequente vedere addetti alle pulizie o manovali sfamarsi con un grosso sacchetto di patatine, che la fornivano ad un costo irrisorio. Paradossalmente era pure una scelta meditata, fatta leggendo con cura le tabelline nutrizionali sulle confezioni e influenzata da quello su cui battevano marketing e informazione di quel periodo: le calorie.

Dalla tristezza di dieci anni fa mi sono reso conto di essere passato, piano piano, ad una sensazione diversa, più simile ad un’irritazione, all’apice della quale mi sono per l’appunto svegliato stamattina. Sono reduce, lo ammetto, da una lunga serie di serate passate a leggere articoli, post e ricerche su alimentazione e stili di vita, e già questo non aiuta il sonno, come una sorta di peperonata mediatica. Il fatto è che ultimamente li trovo sempre più costretti nel politicamente corretto, frenati dal dover tacere o non dire troppo per non scatenare le ire pseudo-legali dell’industrialotto, della lobby o del nutrizionista perfettino di turno, e mi pare che la faccenda stia diventando troppo vischiosa. Non so se avete seguito le vicende della sacrosanta petizione de Il Fatto Alimentare per chiedere di togliere dalle casse dei supermercati snack e dolciumi: dopo pochi giorni è già arrivata la lettera di protesta dei produttori. Che sensazione di mancanza d’aria… sempre, sempre qualcuno a cui la cosa “non sta bene”. E giusto qualche tempo fa avevo visto in TV un’inchiesta sui pranzi, portati da casa, degli scolari americani: una bambina aveva per pranzo una mega crocchetta fritta di pollo, una gelatina di colore blu a forma di budino (come nella foto in alto) e, come dolce, mezzo pacchetto di caramelle! Mezzo pacchetto perché con uno intero le calorie (calcolate con precisione dalla mamma) sarebbero state troppe! Prima di perdere i sensi ho sentito mia moglie dire a mio figlio “prendi un defibrillatore, e carica a 200”… e poi che cibo sono quelle gelatine ballonzolanti e colorate che mangiano quei poveri bambini americani? Ma gli insegnanti non possono aprire bocca: la normativa sancisce che il pranzo preparato dai genitori è intoccabile, e soprattutto sono tutti cibi legali.

Ho poi realizzato, cercando di capire l’origine dell’irrequietezza mattutina, che questo cerchio lungo dieci anni si è idealmente chiuso nel mio inconscio giusto ieri, in pausa pranzo, quando passando al supermercato ho visto un’addetta alle pulizie pranzare con un grosso sacchetto di patatine. Sul momento non ci ho fatto caso più di tanto, ma durante il sonno nel mio cervello tutta una serie di pensieri si devono essere ricollegati fra loro, e complici la peperonata mediatica e un paio di incubi sulla sopravvalutata “crisi” scatenati da qualche telegiornale, mi sono alzato come Hulk con la voglia di spianare tutto con una ruspa per ricostruire da zero.

Agnoressia. Tutti questi episodi, dai sacchettoni di patatine ai cestini del pranzo dei bambini americani, sono infatti emblematici del rapporto che c’è oggi fra industria del cibo, informazione e consumatori, un rapporto perverso che ha generato un modo di mangiare da me battezzato agnoressia, cioè nutrirsi con disinformazione e ignoranza (a-gnosi). Lontana mille miglia dalle folli astinenze dell’anoressia e dagli isterismi quasi comici dell’ortoressia, l’agnoressia sembra ormai guidare l’alimentazione e il modo di procurarsi il cibo della maggioranza di noi, è la totale anarchia alimentare con tre attori, che in una situazione di continua tensione si guardano in cagnesco: consumatori, industria e mezzi di informazione. Ed è questa sensazione di stallo che mi fa diventare verde: di fatto alla fine la giusta informazione non arriva.

L’agnoressia si basa su due princìpi relativi al cibo, sbagliatissimi, nei quali il consumatore medio è portato a credere:

  • se lo vendono nei negozi non può far male
  • se lo posso mangiare allora mi ci posso nutrire fino a sazietà

dimenticando che commestibile non vuol dire sano, e disponibile non vuol dire che ne posso mangiare fin che ce n’è. E vi assicuro che conosco fin troppe persone che mangiano e fanno la spesa seguendo queste due regole. Ma tutte quelle belle trasmissioni televisive sull’alimentazione, le campagne scolastiche sulla frutta e la verdura, i blog naturali? Non gliene importa niente a nessuno. Ho letto un paio di inchieste: le campagne nelle scuole alla fine hanno scarso successo, e per il resto si è portati a pensare che informarsi sia “faticoso”. Dove lo trovo poi il tempo fra shopping, palestra, aperitivo, videogiochi e TV, tutte attività che devo assolutamente fare? Volete forse che perda il sonno per leggere quelle cose complicatissime su verdura, polifenoli e cereali integrali? Poi al supermercato è tutto così comodo, già pronto… e c’è chi controlla che sia tutto in regola, no?

Dall’altra parte le aziende si basano su questi due, di princìpi:

  • se un ingrediente non è vietato lo posso usare
  • se quello che produco non è tossico lo posso vendere

con la terza regola, aggiunta sottovoce:

  • se lo posso vendere non osare criticarlo o ti faccio passare seri guai

E vi assicuro, non sono uno di quelli che ce l’ha per partito preso con l’industria alimentare, anzi. Il problema è solo uno: ancora troppo spesso (ma non sempre, siamo onesti, ci sono anche ottimi prodotti) il cibo che si produce non è cibo vero o è di una qualità orripilante. In pratica, se già il prodotto non ha un vero scopo nutrizionale o non è salutare, azzuffarsi sul fatto che sia o meno legale venderlo è una discussione che non dovrebbe neanche iniziare. Un cibo vero d’altra parte non avrà mai bisogno di essere difeso, men che meno nei tribunali. Una linea produttiva che confeziona caramelle gommose al gusto puffo non dovrebbe neanche essere progettata, capite? Ma non per un divieto, anzi: libertà totale di aprire fabbriche che producono estrusi multicolore di grasso e zucchero, o crocchette semi-sintetiche da aperitivo al gusto di quaglia, il fatto è che non dovrebbe essere conveniente progettarle perché in un mondo ben informato non dovrebbero avere il minimo mercato. L’industria dovrebbe investire su tecniche sane di conservazione delle derrate e sul cibo vero, altro che aggregati di amidi di patata al gusto barbeque.

E dunque arriviamo alla vera causa dell’agnoressia: l’informazione, o meglio la sua mancanza. Ma non perché non ce ne sia, anzi ce n’è troppa, eccessivamente frammentata e scoordinata, tanto che si dice tutto e il contrario di tutto. E troppa informazione è inutile ed equivale a nessuna informazione. Se ci pensate, è una situazione simile alla nostra attuale politica: un inverecondo pollaio. Un eccesso di stimoli che porta il consumatore ad una sorta di stordimento da eccesso di dati, nel quale si finisce, sfiniti, per dare retta a chi urla più forte, cioè a chi vi può investire più denaro. Con l’aggravante che molta informazione non è neanche del tutto libera: terrorizzata da eserciti di avvocati aziendali pronti a perseguitare chiunque osi dire che un prodotto industriale, in regola con le “vigenti norme”, sia anche solo sospettato di fare male (anche se ci sono decine di studi scientifici che lo sostengono), o soggetta al ricatto delle commesse pubblicitarie. Ammettiamolo: un’informazione fumosa e contraddittoria fa comodo a chi vuole mettere sul mercato cibi di scarsa qualità, magari cavalcando mode appositamente costruite attingendo con furbizia dalle ricerche scientifiche. Fa comodo anche a certi media, che possono fare notizia sui presunti continui tira e molla della scienza (cosa dovuta a pessima capacità di interpretare i risultati delle ricerche), le cui scoperte, chissà perché, alla fine arrivano ai consumatori deviate, insabbiate, manipolate, spesso nell’ottica di non danneggiare ora questa categoria di aziende, ora quest’altra, o di favorirle.

In fondo l’agnoressia non è neanche un problema di normativa, anzi la normativa ne è una conseguenza, perché in una democrazia le regole le fa la maggioranza (i consumatori) tramite i suoi rappresentanti. Ma basta leggere le circolari CEE (vedi l’annosa e vergognosa odissea delle etichette) per capire che anche quei nostri rappresentanti sono palesemente agnoressici. Un legislatore ben informato farebbe buone leggi, anche se pressato dalle lobby. Dunque il problema dell’informazione, a questo punto oserei dire della cultura, sembra proprio essere alla base di tutto.

Insomma, uno tira di qua, l’altro tira di là e, come cantava Battisti, siamo all’impasse. Ormai degenerata, per di più, e va risolta sbloccando la situazione. Occorre spazzare via lo stordimento mediatico informandoci meglio e attivando di conseguenza una vivace quanto efficace food guerrilla.

Informarsi meglio. L’informazione va rivista da capo e semplificata, mettendo da parte tutto ciò che è paccottiglia mediatica e attingendo direttamente dalla fonte, la scienza. Senza intermediari influenzabili da vari interessi (diffidiamo di chi vuole informarci e poi venderci qualcosa, sia essa un cibo, una rivista, una consulenza o un libro). E non dobbiamo farci spaventare perché sembra complicata, inafferrabile e inarrivabile ai più: non è così. Niente è troppo complicato se si comincia dalle basi. Guardiamo come ci siamo evoluti: se sappiamo che l’uomo si può cibare, rimanendo in perfetta salute, di cereali integrali, verdure, legumi, frutta e poche altre categorie di alimenti come ha imparato a fare in decine di migliaia di anni, possiamo partire da queste semplici basi e valutare scientificamente e con calma quali miglioramenti tecnologici e industriali possano essere utili (conservazione delle derrate, valorizzazione dei nutrienti) e quali totalmente inutili (cibi finti). Si può fare. Siccome è assurdo filosofeggiare sui dettagli dell’affresco quando bisogna ancora ricostruire la parete, cominciamo dalle cose semplici, i cibi veri e tradizionali, e anche la dieta si semplificherà. Non facciamoci più stordire dalla Babele di informazioni che troviamo sui vari mezzi di informazione (diete assurde, cibi complicatissimi, opinioni ridicole e non dimostrabili), perché la cortina fumogena fa comodo anche a chi vuole che rimaniamo fermi. Non facciamoci sviare dalle pubblicità ammiccanti, dalle campagne di informazione volutamente superficiali, dalle sonore (e dolorose) pacche sulle spalle con sorrisino di sufficienza agli “eccentrici” che osano obiettare qualcosa. Andiamo al sodo. Basta opinioni, fronzoli e minuetti, solo scienza, quella vera.

Food guerrilla. Una volta che siamo certi di essere correttamente informati, saltiamo a piè pari ritorsioni, reazioni, resistenze, minacce e norme farraginose con una sana e inarrestabile food guerrilla: con passaparola, SMS, tweet, segnali di fumo, scritte sulle magliette. Un produttore non vuole smettere di vendere una bibita poco sana facendo l’equilibrista fra normative che andrebbero cambiate? Non si compra più la bibita. Un’azienda pesta i piedi e non vuole dire quali grassi usa nei biscotti? Quei biscotti eliminati dalla lista della spesa. I supermercati non tolgono dalle casse le caramelle? Mai più caramelle nel carrello. Un intero studio legale sbraita che non si deve dire che quello snack fa male? Benissimo, fa benissimo, ma non lo compriamo più. La parola d’ordine deve essere: non lo compriamo più.

Una volta dotati di un’informazione consapevole, saranno i consumatori (la maggioranza) a pilotare in maniera naturale il mercato con i loro acquisti, non la minoranza dei produttori. Ci riapproprieremo dei nostri diritti, perché noi siamo di più e siamo quelli che pagano. E sconfiggeremo l’agnoressia, da chiunque sia causata. Mai più patatine per pranzo, anche se c’è crisi.

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(1) Barbara Ehrenreich, “Una paga da fame. Come (non) si arriva a fine mese nel paese più ricco del mondo”, Feltrinelli, 2002

Pubblicato da: pades | 14 Maggio 2014

Macrobiogenetica tra i fornelli

Ovvero: come parlare di genetica con un bambino di dieci anni cucinando in una assolata giornata di primavera, e uscirne indenni. E se avete sempre sbuffato come locomotive di fronte a termini come nucleotidi, epigenetica, istoni e nutrigenomica, allora questo post, poco serioso ma che aiuta a capire i termini, potrebbe essere meno soporifero di quelli che avete letto finora.

Macrobiogenetica

Macrobiogenetica

Come ormai sa benissimo chi ci segue, la nostra macrobiotica (ippocratica, naturista e scientifica) è legata a triplo filo all’evoluzione dei nostri antenati in questa o quella zona climatica e geografica, all’ambiente e ai cibi che hanno incontrato lungo i millenni, a come hanno interagito con la natura che li circondava. Studiando questi aspetti è impossibile non appassionarsi a tutto ciò che gira intorno a geni e DNA, che hanno permesso ai nostri avi di lasciarci in eredità molta della loro esperienza attraverso un continuo adattamento del proprio patrimonio genetico.

Il nostro DNA è infatti uno straordinario archivio di come siamo stati e di come dovremmo essere per vivere in perfetta sintonia con l’ambiente (e dunque anche con il cibo), e nel contempo la genetica è un campo di studio estremamente affascinante poiché, come vedremo e come pochi sanno, è ancora pieno di veri e propri misteri scientifici tuttora irrisolti.

Visualizziamo solo per un momento il DNA per quello che è, e cioè come una lunga catenella di combinazioni di sole quattro diverse molecole (dette A, C, G, T), che codifica tutto il nostro patrimonio genetico, o genoma: la fila di queste molecole (basi nucleotidiche, nucleotidi per gli amici) è sottilissima (due milionesimi di millimetro), ne contiene svariati miliardi e, una volta “srotolata” fuori dai cromosomi, è lunga più di due metri, e questo per ogni singola cellula. Singole porzioni di questa catenella, composte da diverse migliaia di nucleotidi, sono i famosi geni (l’uomo ne ha circa 23.000). Il genotipo, cioè quello che potenzialmente il nostro DNA può farci diventare, si esprime nel fenotipo, cioè quello che alla fine ne è uscito fuori: partendo dalla prima cellula embrionale i geni e l’ambiente cellulare (interagendo, vedremo come) hanno fatto crescere l’organismo fino all’età adulta dicendo quante dita dobbiamo avere, il colore dei capelli e degli occhi fino alla consistenza del cerume delle orecchie. Ebbene, durante l’evoluzione i geni dei nostri progenitori hanno tentato, attraverso mutazioni casuali a ogni passaggio di generazione, di adattarsi a grossi cambiamenti ambientali: l’uomo è nato in Africa, si è spostato verso Asia ed Europa, ha dovuto sopportare diverse glaciazioni e ultimamente (negli ultimi 10.000 anni) si è pure dovuto adattare (e non ci è ancora riuscito del tutto) all’epocale passaggio dalla caccia-raccolta all’allevamento-agricoltura. Il bello è che da pochi anni a questa parte ci sono le tecniche per capire, lungo questo cammino, quali zone del nostro DNA siano rimaste antiche e quali siano cambiate di più rispetto a come eravamo 10.000 o 100.000 anni fa a causa di questa spietata selezione della natura: quello che viene fuori è molto interessante, e comincia a farci capire molte cose.

Sapete ad esempio quali geni degli europei sono stati sottoposti alla selezione più feroce negli ultimi 10.000 anni, quelli che hanno dato le sterzate più secche alla nostra evoluzione? Ad esempio quelli per il colore della pelle (spostandosi a nord dell’Africa si è schiarita per poter sintetizzare meglio la vitamina D), quelli che controllano il metabolismo di grassi e zuccheri (cambiamento della quota di carboidrati nella dieta), quelli per la sintesi della lattasi (risultato della pratica dell’allevamento come integrazione della dieta agricola) e quelli che controllano nel fegato il complesso detossificante del citocromo P450 (l’uso di nuovi cibi ha portato nuove potenziali tossine nella dieta, vedi anche il post sulle micotossine) (1).

Ci sono invece geni che ancora non hanno fatto in tempo a mutare per tutti, perché le condizioni di vita sono cambiate da troppo poco tempo: da tre milioni di anni fa fino al secolo scorso ad esempio non c’è mai stata abbondanza di cibo come invece accade oggi, dunque siamo ancora profondamente programmati per accumulare più nutrienti e calorie possibili da quello che mangiamo, condizione molto vantaggiosa nei frequenti periodi di carestia. Questa è però, adesso, la causa principale di obesità, diabete e sindrome metabolica che stanno falcidiando i paesi con più risorse alimentari: mangiamo troppo e ci muoviamo poco, ma i nostri geni si aspettano esattamente il contrario.

Capite allora quanto sia importante dominare l’argomento “genetica” per capire la macrobiotica? Ne parleremo molto, prossimamente, ma di fronte a termini ostici come introni, istoni, esoni, cromatina, trascrizione, RNA, ecc. quello di cui ho avuto bisogno è stato un modello di paragone, il più intuitivo possibile, che mi aiutasse a non far gettare la spugna ai vari interlocutori di fronte ad un argomento tutt’altro che semplice, soprattutto a chi vi si avvicina per le prime volte. E il piccolo, con la sue obiezioni geniali, mi ha aiutato molto. Perché un modello di paragone, soprattutto basato su una situazione reale, aiuta a posizionare i vari personaggi sulla scena e a ricordare il copione.

E dunque, quasi per gioco e durante la preparazione di un pranzo per alcuni ospiti in una bellissima giornata primaverile, abbiamo buttato giù un divertente modello che aiutasse a capire come funziona la genetica, e più ne parlavo più mi sembrava calzante.

Immaginate dunque semplicemente una cucina, ad esempio come la vostra, con tutto quello che serve per cucinare e una dispensa ben fornita di tutti gli ingredienti che ci possono servire. Lungo le pareti ci sono i fornelli, i mobili e tutto il resto, al centro un bel tavolo e in mezzo al tavolo la cosa fondamentale: un bel libro di ricette. Ma uno di quei libri di ricette dove, fra un piatto e l’altro, si parla un po’ di tutto: della storia dei vari piatti, dell’origine degli ingredienti, con sfondi colorati e ricco di foto e di aneddoti divertenti… insomma uno di quei bei libri di “cucina raccontata” che tutti abbiamo sfogliato, almeno una volta. Intorno al tavolo ci siamo noi, indaffarati a preparare un bel pranzo. Tutto qua. E qua c’è tutta la genetica.

Come avrete già capito la cucina è la cellula, l’attrezzatura i vari corpuscoli cellulari necessari alla sua attività, gli ingredienti in dispensa le molecole che l’organismo, attraverso il sangue, ci mette a disposizione (aminoacidi derivanti dalla digestione delle proteine, zuccheri, acidi grassi, vitamine, minerali, ecc.). Gli allegri cuochi potrebbero essere, che so, i mitocondri e i ribosomi, cioè i corpuscoli cellulari grazie ai quali avviene quasi tutto quello che conta. Il tavolo è il nucleo, la zona più importante, pulita e protetta della cellula, e in quel bellissimo libro di ricette c’è ovviamente il nostro DNA. Il libro nella sua interezza è la cromatina (cioè il DNA più tutte le varie proteine che lo tengono insieme), mentre ogni ricetta rappresenta un gene: nella cellula i geni servono a dire come costruire le proteine, che nel nostro modello corrispondono ai piatti che vengono preparati con le varie ricette.

Quello che è bene sapere subito è infatti che lo scopo principale del DNA, attraverso il quale viene costruito e fatto funzionare tutto l’organismo, è la sintesi di svariate e diverse proteine (per l’uomo si stima circa 50-60.000): per costruirne i tessuti sì, ma anche gli enzimi (quasi tutti sono proteine) e gli ormoni (molti sono, anche loro, catene proteiche) per controllarne il funzionamento.

Miliardi di parole. Quello che più colpisce sono i numeri del DNA: miliardi e miliardi di nucleotidi messi ordinatamente in fila, e lunghe porzioni di essi (anche di due milioni per le proteine più complesse) a formare singoli geni. Il modello delle “ricette” o del “libro di ricette” non è una novità mia, ovviamente, ma associare le ricette ai geni e le lettere che le compongono ai nucleotidi (come fanno altri) non mi è mai piaciuto, è sproporzionato, non dà l’idea dei numeri. Piuttosto è molto più calzante associare le quattro basi nucleotidiche (Adenina, Citosina, Guanina, Timina) ai punti di quattro diversi colori (se avete mai cambiato le cartucce alla stampante che avete di fianco al PC sapete di cosa sto parlando) che compongono la pagina su cui è stampata la ricetta (giallo, magenta, azzurro, nero, vedi figura qui sotto). Nei geni infatti non tutta le sequenza di basi nucleotidiche codifica la proteina, ma si alternano porzioni codificanti (esoni) e porzioni non codificanti (introni). Proprio come sulla nostra pagina della ricetta, dove gruppi ben distinti di punti colorati (le lettere) codificano l’informazione mentre il resto (gli spazi fra una lettera e l’altra, lo sfondo, le fotografie) non sono indispensabili alla ricetta, e infatti quando la leggiamo li scartiamo mentalmente, proprio come la trascrizione dell’RNA scarta gli introni e memorizza solo gli esoni per passare l’informazione così ripulita ai ribosomi, che costruiranno poi la proteina.

Nucleotidi o punti colorati?

Nucleotidi o punti colorati?

E sapete quanto del DNA non è codificante, cioè non serve apparentemente a nulla? Più del 95%. Sì, avete letto bene: tutto il progetto del nostro organismo, dai capelli ai piedi, sta in meno del 5% del DNA. E il resto? Qui la ricerca è ancora apertissima: mistero. E qui ho visto il viso del piccolo illuminarsi (ai bambini piacciono tanto i misteri, e anche agli adulti…). Alcuni, un po’ troppo pragmatici, lo hanno chiamato “DNA spazzatura” (junk DNA), dando per scontato che non serva assolutamente a nulla. I più cauti sostengono invece che “non sia di nessun danno ai normali processi cellulari” e anzi “a qualcosa potrebbe servire” ma “al momento non lo sappiamo”. Stessa cosa molti anni fa si pensava dei telomeri, le sequenze ripetitive di DNA ai bordi dei cromosomi, che si sono poi rivelate determinanti per stabilire la longevità delle varie generazioni di cellule e di conseguenza dare al fortunato possessore di telomeri più lunghi della media la possibilità di diventare un centenario.

Le tecniche che hanno portato, tramite il Progetto Genoma Umano, a sequenziare gran parte del nostro DNA hanno fatto passi da gigante, ora si sequenzia con poche migliaia di euro il genoma di qualsiasi essere vivente, e gli scienziati si stanno sbizzarrendo. Ad esempio hanno visto che il pesce palla ha più o meno lo stesso numero e la stessa disposizione dei geni umani, ma con solo il 10% di DNA spazzatura, ed eccolo diventato il modellino ideale per teorie e verifiche. Ma è sbagliato pensare che più un organismo è complesso più è lungo il suo DNA. Ad esempio la rana ha più DNA di noi, il fagiolo ancora di più e il giglio di più ancora. La storia evolutiva e l’esigenza di essere adattabili (per le piante che non possono muoversi, ad esempio, è determinante) sembrano c’entrare molto. Allora ho chiesto al piccolo: “ma perché ti piace di più leggere una ricetta in un libro pieno di aneddoti e fotografie piuttosto che in uno più compatto ma scritto solo in bianco e nero?”. “Perché quando preparo gli spaghetti al pomodoro, è bello sapere anche la loro storia”. La loro storia.

E forse questa abbondanza, per il DNA, è anche utile: immaginate di dover preparare un piatto prendendo la ricetta dal libro. Preferite avere in dispensa un’abbondanza di ingredienti che vi permetta di cucinarne anche altre versioni e di rimediare ad eventuali errori o solo i pochi, precisi ingredienti della ricetta? Se la ricetta prevede due uova, non vi sentite più sicuri se nel frigo ne avete, che so, una mezza dozzina per sicurezza? E se fosse la stessa ricetta a suggerirvelo fornendovi consigli non strettamente legati a quella preparazione, ma sempre utili per ricette di quel tipo? Molte sequenze non codificanti del DNA sono sequenze di controllo, ripetizioni, vecchie mutazioni ormai in disuso o tentativi di mutazione, e non è escluso che servano anche a tenere più fornito del necessario il corredo di aminoacidi, minerali o vitamine presente nel citoplasma della cellula, per essere certi che nulla possa mancare quando serve. E ancora, se una ricetta di venti parole viene scritta con mille, e sapendo che durante la preparazione almeno un paio di parole andranno perse, la probabilità che ad andare perse siano parole indispensabili è bassissima. Sullo scopo del DNA non codificante, che –ricordiamolo- ammonta a più del 95%, le ipotesi sono ancora tutte aperte.

Una matassa intricata. Tutti sappiamo, perché la abbiamo vista migliaia di volte, come è fatta la struttura del DNA: la famosa “doppia elica”, scoperta nel 1953 e simile ad una lunghissima scaletta a pioli attorcigliata, i cui pioli sono coppie di basi nucleotidiche composte da pochi atomi ciascuna. I pioli sono tenuti in fila su uno scheletro formato da acido fosforico e da uno zucchero (il desossiribosio, ecco perché il DNA è detto acido desossiribonucleico). Il problema è che la scaletta è sì molto sottile ma lunga, lunghissima. Per dare un’idea, se fosse spessa come un filo da pesca sarebbe lunga circa 100 km, e se ammassata ordinatamente occuperebbe comunque il volume di un grosso armadio dentro un nucleo cellulare grosso più o meno come una stanza (nella realtà il nucleo è una pallina di circa un centesimo di millimetro e il DNA è spesso circa due milionesimi di millimetro). Come si intuisce dalla figura qui sotto la nostra scalettina è avvolta ordinatamente attorno a grosse proteine (dette istoni) che a loro volta sono ben compattate a gruppetti (nucleosomi) per formare un filamento più grosso che si arruffa fino a formare le nostre 23 coppie di cromosomi (ognuno con la propria porzione di DNA).

DNA

DNA

 Nel nostro modello del libro di ricette abbiamo detto che le basi nucleotidiche sono i puntini della stampa. Allora gli istoni corrispondono alla carta su cui il libro è stampato, sulla quale i puntini colorati, grazie alla loro precisa sequenza, rappresentano l’informazione con lettere e immagini. Per sua natura il libro consente di trovare, ben ordinate, tutte le ricette, così come nei nostri cromosomi un certo gene è sempre lì dove ci aspettiamo che sia, nonostante l’apparente groviglio. Come il nostro libro ha capitoli (cromosomi) dedicati ai primi, ai secondi e ai dolci, così i vari cromosomi del DNA contengono la codifica di proteine dedicate a diverse funzioni.

Ok, ma ora cuciniamo. Fin qui dunque tutto bene, abbiamo il nostro ricettario e siamo in grado di produrre diversi piatti, ma sorge un primo problema: mettiamo che abbiamo deciso esattamente quale ricetta seguire, come la applichiamo? Non vorrete mica che, con le mani sporche e unte, prendiamo il prezioso librone e giriamo per la cucina, come Dante che declama la Commedia, in cerca di ingredienti, vero?

E qui è arrivata una delle solite domande del piccolo: perché conservare tutto sul tavolo? Le ricette non si possono tenere sparse qua e là per la cucina, tipo appese alle pareti come quadretti o poster? Beh, prima di tutto una cosa così preziosa come il DNA conviene tenerlo sempre sotto controllo, e poi è meglio non farlo venire a contatto con troppe sostanze che potrebbero contaminarlo, dunque è molto più al sicuro nel nucleo. Ma lungo l’evoluzione non è sempre stato così, infatti i primi organismi unicellulari come i batteri hanno ancora adesso il genoma sparso per la cellula, e si chiamano infatti procarioti, cioè “prima del nucleo”, mentre dalle alghe in poi sono definiti eucarioti, e sono dotati di nucleo. D’altronde non sarebbe facile cucinare in una cucina senza il tavolo, e in più conviene pensare a qualche stratagemma per evitare che, cucinando, il libro si sporchi. Si potrebbe fare una fotocopia di tutto, e quando si rovina rifarla. Si potrebbe, sì… ma arriveresti a un punto, prima di farne un’altra, in cui sarebbe così vecchia e rovinata che potresti leggerla male e sbagliare una ricetta… no, ci vuole un metodo sicuro e anche più economico, per evitare di fotocopiare tutte le migliaia di pagine se poi alla fine ne usi le solite poche decine. Il modo migliore è, quando serve preparare un piatto, scriversi la ricetta su un foglietto e buttarlo quando hai finito. Ed è esattamente quello che capita quando una cellula riceve i segnali per la produzione di una proteina: il gene necessario viene individuato e avviene una trascrizione della sequenza di nucleotidi codificanti (gli introni vengono scartati) su un filamento di RNA (acido ribonucleico – lo zucchero stavolta è il ribosio) che la trasporta fuori dal nucleo verso i ribosomi, attraverso i quali avviene la traduzione nella sequenza di aminoacidi nel preciso ordine necessario a formare la proteina. Gli aminoacidi vengono presi dal fluido cellulare in cui beatamente galleggiano e assemblati fino a completare la proteina (e qui sto semplificando molto perché solo per questi passaggi serve un saggio di decine di pagine…). Allo stesso modo quando noi abbiamo in mano il nostro foglietto con la trascrizione della ricetta andiamo in giro per la cucina a recuperare gli ingredienti e poi, seguendo scrupolosamente dosi e istruzioni, prepariamo il piatto.

Ricette

Ricette

Sì, ma cosa cuciniamo? A questo punto sorge un secondo problema: come potete vedere il DNA è un groviglio da mettersi le mani nei capelli, e in tutte le cellule è presente una copia completa di tutto il nostro genoma. Ma le cellule della pelle devono produrre solo proteine della pelle, quelle delle ossa proteine per le ossa e quelle del fegato proteine completamente diverse. Cosa fa capire alla cellula quale esatta parte dei geni deve utilizzare? Nel nostro modello, quale ricetta delle migliaia presenti nel libro dobbiamo preparare? Dipende dalla “ordinazioni” che ci arrivano dall’esterno della cucina: una pasta al pomodoro, un’insalata, una torta… Sicuramente a regime non saremo mai in grado di poter preparare qualsiasi ricetta, dovremo specializzarci in poche varianti dello stesso piatto, per farle sempre bene e velocemente. Allo stesso modo le cellule, mammano che l’organismo passa da embrione a neonato e poi lungo tutta la vita, si specializzano passando da cellule staminali totipotenti (possono diventare qualsiasi cellula di qualsiasi parte del corpo) a multipotenti (solo pochi tipi di cellule) a specializzate (cellule specifiche di una ben precisa parte del corpo). Ma chi dice alla cellula in quale direzione specializzarsi e quali dei 23.000 geni esprimere a regime? Qui entra in gioco la parte più interessante, cioè l’epigenetica, che studia i meccanismi che dicono alla cellula quale precisa parte del DNA deve “attivare” o “disattivare”. Per farla breve, questi meccanismi si basano sui segnali biochimici e fisici dell’ambiente in cui la cellula risiede (come le ordinazioni per una torta o una frittata che ci arrivano a voce o su foglietti da fuori la cucina) che si traducono nell’azione di specifiche proteine di controllo (enzimi, legati a quei segnali esterni) che si attaccano al DNA mettendo in evidenza e rendendo fisicamente accessibile la parte del DNA con i geni che la cellula deve esprimere, e lasciando inattive le parti del cromosoma che non devono esprimere geni, rendendole proprio più chiuse, compattate e inaccessibili. Questo avviene tramite la cosiddetta metilazione del DNA, tramite la quale il genoma, a regime e nelle cellule specializzate, viene tutto disattivato tranne le porzioni utili alla cellula nel suo contesto: il libro di ricette rimane sempre chiuso sul tavolo, e lo si apre solo per andare ad una specifica ricetta segnata da un segnalibro-enzima. Sono meccanismi che si sono affinati in milioni di anni, e come potete capire l’argomento è tanto vasto quanto complicato. Ma quello che ci interessa è che l’espressione dei geni, e di conseguenza il comportamento di tutte le nostre cellule, viene in gran parte da segnali dell’ambiente, e di conseguenza anche dal cibo, che concorre a creare l’ambiente in cui la cellula vive. Pensate alla specializzazione che devono avere le cellule del pancreas per produrre insulina in confronto a quelle che producono il moccio del naso: ho sempre pensato agli organi come “camere epigenetiche” il cui compito è di ricreare, per le cellule che contengono, un ambiente estremamente controllato e adatto ad esprimere solo determinati geni per produrre proteine (e quindi ormoni ed enzimi) molto specializzate.

Se alla nostra cucina viene richiesto di preparare sempre l’amatriciana, possiamo permetterci di tenere una dispensa dedicata, con ingredienti di altissima qualità, e saremo sempre pronti a produrre un’amatriciana perfetta. Il libro di ricette sul tavolo avrà una proteina di controllo (scusate, un segnalibro) sempre sulla ricetta giusta e le pagine saranno sempre (e solo) aperte su di essa. Le altre, per quel che ci riguarda, potrebbero anche essere incollate. Altre cucine si occuperanno dei secondi e dei contorni, ed è così che funziona la comunità di cellule che forma il nostro corpo. Cosa molto interessante: le cellule delle piante, che solitamente hanno un genoma molto più vasto di quelle animali, sono estremamente sensibili e precise nelle risposte del proprio DNA ai segnali epigenetici dell’ambiente, ma rimangono in gran parte staminali totipotenti (spesso da una qualsiasi singola parte della pianta può nascere un’intera nuova pianta, come sa chi ha il pollice verde).

E’ in questo contesto che prendono vita discipline molto promettenti come la nutrigenetica (studia come il nostro genoma vada d’accordo o si ribelli a quello che mangiamo) e la nutrigenomica (studia come quello che mangiamo influisce sul nostro DNA pilotando l’espressione dei geni, ad esempio tramite segnali epigenetici). Più in generale ci sono poi l’ecogenetica (il nostro DNA è adatto all’ambiente in cui viviamo?) e l’ecogenomica (quanto e come l’ambiente influisce sull’espressione dei nostri geni?). Recentissima ad esempio la conferma che anche solo mezz’ora di attività fisica moderata attiva, nei muscoli, i geni che ne stimolano la crescita, mentre la sedentarietà letteralmente li “spegne” (2), portando i muscoli ad atrofizzarsi (gli astronauti ne sanno qualcosa). Oppure che il sovrappeso agisce sui geni che possono favorire certi tumori. Tutte cose che per esperienza erano ovvie e ben note, certo, ma adesso si cominciano a capire i meccanismi, e sono genetici o, ancora meglio, epigenetici. Tutto questo ha aperto alla ricerca non solo strade, ma autostrade per i prossimi decenni, ed è sempre più ovvio che il DNA esprima bene i propri geni in presenza degli stessi segnali evolutivi a cui si è adattato.

E’ qui che volevamo arrivare. Dunque capite quanto sia importante l’interazione fra noi e l’ambiente e in particolare con il cibo, e quanto tutto questo si intrecci con la nostra macrobiotica? Quello che sosteniamo, cioè che un rapporto più naturale con l’ambiente in cui viviamo, con una dieta regionale, stagionale e tradizionale sia la migliore condizione per farci vivere bene, è in buona parte spiegato con questi meccanismi. L’equilibrio fra il nostro genoma e l’ambiente è frutto di milioni di anni di evoluzione e interazione fra l’organismo e la natura. Più che definirlo delicato (e per certi versi lo è) lo definirei estremamente raffinato, perché influenzato da milioni di variabili. Un capolavoro. Il nostro genoma un ambiente naturale se lo merita.

Ad esempio, se fossimo nati e cresciuti in Giappone potremmo digerire meglio le alghe, come potete leggere nel post qui sotto che tratta del microbiota intestinale, che in quanto a vastità di genoma non è secondo a nessuno… curiosi vero?

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P.S. per i saputelli: sì lo so, non ho parlato di corredo aploide e diploide, di geni dominanti e recessivi, di trasposoni, di DNA ribosomiale, di polimorfismo e di un sacco di altre cose, ma quanto pensate che debba essere lungo un post del genere, e soprattutto quanto deve essere grande la pazienza di un bambino di dieci anni? Per la cronaca, il pranzo è poi riuscito benissimo.

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Riferimenti:

(1) La ricerca riguardo la selezione sul genoma umano di Jonathan Pritchard e del suo team (Stanford University) è ben riportata nel libro di Spencer Wells “Il seme di Pandora – Le conseguenze non previste della civilizzazione”, Ed. Codice, 2011.

Jonathan Pritchard ha elaborato i dati scaturiti dal gigantesco progetto HapMap. Se vi interessa potete cercare:

“A haplotype map of the human genome”. The International HapMap Consortium, sul numero 437 di “Nature” (2005), pagine 1299-1320.

Se vi interessa il lavoro di JK Pritchard, invece, potete partire da qui:

“A map of recent positive selection in the human genome”. B.F.Voight, S. Kudaravalli, X.Wen, J.K.Pritchard, su “PLoS Biology” 4(3): e72 (2006).

(2) R. Barrès e altri

“Acute exercise remodels promoter methylation in human skeletal muscle”

Su “Cell Metabolism” numero 15, pagine 405-411 (7 marzo 2012)

Pubblicato da: pades | 14 Maggio 2014

Amici del microbiota, vi manca solo la parola

Tutti noi abbiamo un organo aggiuntivo: i batteri intestinali. Con un patrimonio genetico di cento volte superiore al nostro. Per fortuna sono nostri amici.

Microbiota

Microbiota

Qualche post fa abbiamo visto quanto sia importante il secondo cervello nella pancia, il sistema nervoso enterico, e in quell’occasione abbiamo lasciato un po’ sullo sfondo il fatto che esso dialoghi anche con la comunità di batteri che popola il nostro intestino. Batteri che fino a qualche anno fa erano chiamati “flora intestinale”, ma che da quando i batteri non sono più classificati nel regno vegetale (ma in un regno a sé stante) hanno cambiato nome ed ora quello condiviso è microbiota intestinale. Ulteriore differenza da tener presente è quella fra microbiota (la comunità di batteri) e microbioma (l’insieme di tutto il loro genoma), perché confonderli è purtroppo un’imprecisione che si nota spesso, soprattutto in articoli un po’ datati.

Il microbiota intestinale può essere considerato un eso-organo, in quanto (come vedremo) è indispensabile alla nostra salute e dotato di ragguardevoli dimensioni (può arrivare a pesare intorno ad un chilo). La cosa interessante è che è composto da più di 400 tipi di batteri, dunque rappresenta una biodiversità tale da potersi adattare a molteplici situazioni. Come abbiamo capito nel post qui sopra sulla genetica, questa notevole capacità di adattamento è dovuta soprattutto alla incredibile varietà di genoma di tutte queste specie batteriche, che arriva ad essere addirittura 100-150 volte il nostro per un numero globale di cellule che supera quello del nostro stesso organismo. Come vedremo, la vastità del microbioma e la conseguente versatilità del microbiota sono il punto chiave della faccenda, ed il motivo per il quale il nostro organismo ha scelto di firmare con il microbiota un’alleanza, ormai indissolubile, che dura da milioni di anni.

La grande capacità di analisi del nostro secondo cervello nella pancia gli permette infatti, per via biochimica, di interpretare i segnali dei batteri (quantità e qualità degli enzimi e dei metaboliti prodotti, ph intestinale, e molteplici altri parametri) e di rispondere di conseguenza, esercitando un controllo sulla stessa comunità batterica (creando le condizioni perché un tipo di batteri piuttosto che un altro prosperi o venga eliminato, ad esempio). A questo proposito, come direbbe La Settimana Enigmistica, non tutti sanno che… tolta l’acqua, almeno il 30% delle feci è composto da batteri del microbiota: vista la loro capacità di moltiplicarsi, dobbiamo pur eliminare l’eccesso, in qualche modo… (4)

Dunque il quadro si fa interessante: il sistema nervoso enterico collabora con un esercito di batteri che usa come “mediatore culturale” con il cibo, cioè la parte di ambiente esterno che giornalmente entra dentro di noi. Il nostro apparato digerente infatti, anche se già adattabile di suo, amplifica questa caratteristica con la versatilità e la velocità (2) di risposta del microbiota, che lo rendono molto più elastico e consentono risposte più precise, senza contare il fatto che i batteri possono produrre enzimi (per digerire ad esempio le fibre) che noi non siamo in grado di sintetizzare. La versatilità del sistema microbiota-intestino si rende necessaria per poter affrontare la normale variabilità di nutrienti nei cibi: oggi il pane può avere più fibre di ieri e magari di una qualità leggermente diversa, oppure in questo mese abbiamo mangiato una varietà di spinaci differente da quella del mese scorso. La qualità del microbiota ovviamente dipende dalla carica batterica ambientale presente nella zona in cui viviamo e che rimane sui cibi che mangiamo (alla quale l’organismo si deve già adattare e che conosce anche per altre vie), e per certi versi è molto “regionale”, e dipende anche dalle abitudini alimentari “tradizionali” e da quanto cibo crudo (dunque non sterile) si consuma abitualmente. Il microbiota è una compilation di ceppi batterici già presenti intorno a noi che già sono in grado, per loro sopravvivenza, di digerire i vari alimenti, e il nostro organismo li ha selezionati pazientemente in milioni di anni per poter meglio digerire a sua volta gli stessi alimenti. Ad esempio i giapponesi, che consumano abitualmente alghe, hanno nel microbiota un tipo di batterio che produce un enzima adatto a demolire le fibre coriacee di alcune alghe (1). Il batterio è migrato dall’ambiente marino al microbiota dei giapponesi millenni fa dopo vari rimescolamenti di DNA con altri batteri marini, trasportato sulle stesse alghe, e lì è rimasto. Quel tipo di batterio non si trova in nessun’altra popolazione, e la domanda interessante potrebbe essere: se un europeo andasse a vivere in Giappone potrebbe ospitare quel batterio? Il suo intestino lo accetterebbe? Viceversa, un giapponese che emigra in Nord America e smette di mangiare alghe lo conserva? L’equilibrio intestino-microbiota ha tutta l’aria di essere delicato, e infatti lo è: pensate ad esempio l’effetto “napalm su foresta del Vietnam” che può avere una terapia antibiotica sul nostro povero microbiota. Sembra infatti che dopo aver assunto antibiotici il microbiota non riesca più purtroppo a tornare esattamente come era prima, ed è quasi sempre questa la causa delle successive noie digestive lunghe a risolversi (nota doverosa: gli antibiotici possono salvare la vita, qui si parla di terapie antibiotiche superflue, o peggio che mai auto-prescritte senza il medico).

Il microbiota può essere simile in individui di una certa comunità, molto simile nel gruppo familiare, ma diventa già molto diverso appena si cambia la dieta (2), e questo ovviamente vale anche per gli animali. Ad esempio le scimmie, pur essendo geneticamente molto vicine a noi, hanno un microbiota molto differente da quello umano perché hanno una dieta molto meno “densa”, con molte più fibre che necessitano di una particolare fermentazione, e infatti con l’evoluzione hanno sviluppato anche un colon più lungo del nostro per ospitarlo (l’alta “densità” della dieta umana, cioè più nutrienti a parità di volume di cibo, è stato uno dei fattori acceleranti della civiltà).

Su quanto sia determinante avere un buon microbiota, ed averne uno piuttosto che un altro, le ricerche sono ormai innumerevoli. Si è visto ad esempio che topi di laboratorio ai quali viene tolto, con complicate tecniche, tutto il microbiota vanno incontro ad un rapido quanto inesorabile decadimento fisico e non riescono più a digerire efficacemente i cibi, mentre due topi con identico genoma (quindi gemelli), identica dieta ma diverso microbiota (opportunamente “pilotato”) tendono -ad esempio- ad avere uno un metabolismo sano e l’altro a diventare obeso.

Alla fine, il succo della faccenda qual è? Che i milioni di geni presenti nel gigantesco genoma del microbiota vengono espressi in maniera diversa a seconda della dieta, dell’ambiente, della stagione, dell’età e chissà cos’altro, rendendo la risposta dei batteri intestinali e dell’apparato digerente estremamente efficace, veloce, plastica e versatile, ma questo non vuol dire che la dieta abituale possa subire continui strappi o (come vorrebbero fare alcuni scienziati modificando artificiosamente il microbiota) assecondare l’introduzione massiccia di cibi super-industriali, finti e ai limiti del sintetico. L’evoluzione ci ha adattati ad usare l’elasticità del microbiota per i cambi, ad esempio, da una stagione all’altra o per assecondare periodi di relativa abbondanza o diversità di questo o quell’alimento, ma sempre entro i confini di una dieta in linea di massima “conosciuta” e naturale, e ci sono limiti oltre i quali il sistema intestino-microbiota crolla. Tutti gli studi sembrano infatti dimostrare che esasperazioni che sconfinano in diete dissennate alterano così tanto il microbiota da rendere il rapporto con il sistema nervoso enterico ingovernabile e potenzialmente nocivo per il metabolismo e per lo stesso apparato digerente.

E’ ad esempio dimostrato che il microbiota, sebbene sia in grado di normalizzare l’infiammazione delle cellule dell’intestino, con una dieta eccessivamente carnea (stile yankee per intenderci) non riesca a sostenere la continua infiammazione latente che si crea, con conseguente colite, infiammazione cronica e rischio di cancro al colon. Altro caso: si è visto che i soggetti obesi hanno un microbiota completamente sballato, che in un circolo vizioso altera poi le vie metaboliche di diversi alimenti, con ulteriori ricadute sulla salute (insulinoresistenza, sindrome matabolica, ecc.). D’altro canto una dieta con abbondanti vegetali (fibre) sembra più adatta a mantenere un buon equilibrio fra apparato digerente e microbiota, con conseguente aumento tra l’altro della produzione di acido butirrico, protettivo per le cellule dell’intestino.

Quello che insomma viene fuori dalla ricerca scientifica è una serie di conferme del fatto che uno stile di vita naturale sia il mezzo migliore per far proseguire la millenaria alleanza fra noi e il nostro microbiota, e un consiglio: badare alla nostra comunità di batteri intestinali come ad un qualsiasi altro organo, dando al nostro fido secondo cervello nella pancia e al suo alleato batterico quello che, dopo millenni di pacifica e collaborativa evoluzione, si aspettano: un’alimentazione naturale.

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(1) J.H Hehemann, G. Correc, T. Barbeyron, W. Helbert, M. Czjzek & G. Michel

“Transfer of carbohydrate-active enzymes from marine bacteria to Japanese gut microbiota”

Su “Nature” numero 464, pagine 908-912 (8 Aprile 2010).

(2) L.A. David, C.F. Maurice e altri

“Diet rapidly and reproducibly alters the human gut microbiome”

Su “Nature” numero 505, pagine 559-563 (23 gennaio 2014)

(3) P.J. Turnbaugh, R.E. Ley e altri

“An obesity-associated gut microbiome with increased capacity for energy harvest”

su “Nature” numero 444, , pagine 1027-1031 (21 dicembre 2006)

(4) Il resto sono fibre, sostanze da alimenti assunti in eccesso, grassi, fluidi digestivi e materiali di scarto vari fra cui le cellule morte dello stesso intestino. Tutto questo tolta l’acqua, che arriva al 60/70% sul totale.

Pubblicato da: pades | 29 luglio 2013

Aflatossine, ocratossine e altre amenità. Che fare?

Non esistono trattamenti domestici o di facile applicazione per eliminarle, e sono presenti in molti più cibi di quanto immaginiamo. Alcune micotossine sono pure cancerogene. L’economia alimentare globalizzata non aiuta per niente, anzi… Ma l’alimentazione naturale può fare molto. Vediamo perché.

Segale cornuta

Segale cornuta

Capita sempre più spesso di sentire notizie di alimenti ritirati dal mercato perché contaminati da micotossine. Purtroppo la stampa tende a darne notizie molto, troppo allarmistiche sul momento e a dimenticare poi tutto nel medio-lungo periodo, come se passata l’emergenza svanissero per magia e tutto tornasse puro. Nonostante il mirino della ricerca le abbia inquadrate  e messe a fuoco da pochi decenni, le micotossine fanno invece danni da sempre e senza soste, e in molti casi hanno anche fatto prendere alla Storia direzioni inaspettate.

Come nel 1722, quando Pietro il Grande, zar di tutte le Russie, cavalcava baldanzoso verso le coste del mar Nero, forte dei successi delle precedenti campagne belliche. Era certo di poter sottrarre agli ottomani il dominio dei porti turchi e lo sbocco sul mare, ma sulle rive del Volga il suo esercito venne colpito da una strana epidemia: secondo le cronache ai soldati, in preda alle allucinazioni e dopo una fulminante cancrena, si staccavano mani e piedi dal corpo. Il contingente venne decimato, lo zar si salvò per il rotto della cuffia, la “Campagna Persiana” (che finì per essere l’ultima di Pietro il Grande) venne annullata e gli equilibri geopolitici stravolti. Un danno immenso per l’Impero Russo causato da un piccolo insignificante fungo, la Claviceps purpurea, responsabile della celebre segale cornuta, così chiamata per via del cornetto grigiastro (il corpo del fungo) che si forma sulla spiga dei cereali colpiti, come potete ammirare nella foto di apertura. Un danno di poco conto per i semi, ma dagli effetti devastanti su chi consuma i chicchi contaminati dalle micotossine prodotte dal fungo, chicchi con i quali i soldati avevano preparato il pane che li aveva poi avvelenati. Ricchissime di alcaloidi estremamente tossici, di cui alcuni simili all’allucinogeno acido lisergico (vedi LSD), queste tossine sono neurotossiche, provocano allucinazioni e alterano la coscienza, e se consumate oltre una certa quantità causano anche una violenta vasocostrizione periferica in seguito alla quale gli arti necrotizzano rapidamente con frequente distacco delle dita (e quella volta la contaminazione doveva essere veramente alta). La sindrome è nota come ergotismo (ergot, sperone, è il nome comune che viene dato alla Claviceps p.) e non è stata l’unica volta in cui la Storia ne ha subìto le conseguenze. Le stesse alterazioni neurologiche, a giudizio di alcuni storici, sono state alla base dell’esacerbarsi delle sommosse che portarono nel 1789, solo una settantina di anni dopo, alla Rivoluzione Francese: i cereali, che scarseggiavano in seguito a ripetute carestie, venivano consumati anche se infestati dall’ergot, la segale cornuta. Molti manifestanti, intossicati, divennero incoscienti, allucinati, irascibili e più spavaldi del solito nell’affrontare, forconi alla mano, i nobili e i loro soldati, e le sommosse finirono per diventare uno dei maggiori cambiamenti sociali della storia.

Di contaminazione in contaminazione si intuì sempre più la responsabilità di queste muffe in queste strane epidemie, ma solo negli anni ’60 la ricerca fu in grado di isolare i responsabili. Il casus belli fu una vasta epidemia mortale che proprio nel 1960 colpì numerosi allevamenti, soprattutto avicoli, in Gran Bretagna. Decine di migliaia di tacchini e polli ci lasciarono le proverbiali penne ma questa volta, indagando a fondo e incrociando i dati, la causa fu evidente: una gigantesca partita di farina di arachidi (si dice proveniente dal sudamerica) usata come mangime era stata contaminata dalle tossine prodotte da un fungo, l’Aspergillus flavus, che provocavano una rapida quanto nefasta necrosi epatica. Queste molecole tossiche, dalle iniziali del fungo che le produceva, furono chiamate Aflatossine, e in quel momento inizia la storia delle micotossine.

Da allora la ricerca si è fatta più serrata, le tecniche di rilevamento delle micotossine si sono affinate ma la situazione è parsa via via tutt’altro che tranquillizzante. I livelli di micotossine negli alimenti sono diventate lo spauracchio di produttori e consumatori: la paura di danni economici per i primi, di danni alla salute per i secondi. Ma se ne parla ancora troppo poco, a detta di molti esperti è un problema ampiamente sottovalutato. Ogni tanto si legge di partite di latte contaminate da aflatossine ritirate dal mercato, o di interi silos di mais che finiscono nelle centrali a biomassa come combustibile perché rese inservibili dalle fumonisine. Ma quello che al pubblico passa poco è la percezione di quanto queste contaminazioni siano endemiche. Qualche anno fa il  “Il Salvagente” pubblicò una celebre inchiesta sulla pasta nei formati usati spesso dai bambini (1), nella quale i livelli di ocratossine e deossinivalenolo (altre due micotossine) erano tutt’altro che tranquillizzanti, e periodicamente pubblica i risultati delle indagini –autofinanziate- sul latte, spesso non immune da aflatossine. I produttori, dall’altro lato, tendono a glissare e a minimizzare, chiedendo per contro addirittura l’innalzamento delle soglie di legge (vedi in fondo le immagini estratte da riviste del settore (4)). Il 2012, per il mais, è stato un anno terribile: a causa della stagione siccitosa, che ha stressato le piante, i livelli di aflatossine sono allarmanti. Forse peggio della pur grave situazione del 2003, o del 2005, anno in cui a causa delle fumonisine il 75% del mais italiano era oltre i limiti di legge, e addirittura il 45% li superava di oltre tre volte (dati del Ministero della Salute (2)). Chiediamoci: qualche giornale ha fatto inchieste serie sui mangimi a base di mais che dall’autunno del 2012 gli allevamenti stanno somministrando agli animali (vacche, manzi, polli e chi più ne ha più ne metta)? Gli effetti “a sorpresa” li vediamo poi sul latte ritirato dal mercato, ma per gli addetti ai lavori la situazione era più che prevedibile…

D’altra parte le “moderne” tecniche di produzione su larga scala, che fanno dei cereali una commodity come tante (3), non aiutano di certo, contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare. Un giorno possiamo mangiare pasta prodotta con grano duro proveniente dal Canada, e l’indomani (stessa marca, ma lotti diversi) con grano duro coltivato in Russia. Cereali che percorrono migliaia di chilometri stipati in container o nelle stive delle navi e soggetti alle più disparate condizioni atmosferiche, premiati dal “mercato” più per il loro costo concorrenziale che per le caratteristiche di qualità. Fortunatamente i controlli, almeno qui in Italia, vengono fatti. Ma viene spontaneo chiedersi: vengono fatti sempre, su tutte le partite, per tutti gli importatori? Anche in questi tempi di crisi?

Dopo questa catilinaria sulle politiche commerciali della globalizzazione, passiamo alla parte più scientifica: quante e quali sono le micotossine, quanto sono pericolose, come e perché possono farci male e soprattutto con quali meccanismi? E’ possibile limitare i danni? Fortunatamente la risposta è sì.

Cosa sono. Le micotossine sono molecole prodotte da una manciata di differenti muffe (dunque funghi) dei generi Aspergillus, Fusarium, Pennicillium e da pochi altri di scarsa diffusione (Claviceps, Cladosporium, Rhizopus, …). Sono metaboliti secondari, cioè non sono indispensabili  alla sopravvivenza e alla riproduzione del fungo, ma vengono eventualmente prodotte in certe condizioni favorevoli (umidità e temperatura elevate). Non tutti i funghi producono micotossine e nemmeno tutti quelli dei generi interessati, e non tutte le micotossine prodotte sono tossiche per l’uomo. Dal 1960 ad oggi sono state isolate e catalogate circa 300 micotossine, alcune delle quali estremamente pericolose perché classificate come “sicuramente cancerogene” dall’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro (classe 1), come le aflatossine, altre “possibilmente cancerogene” come ocratossine e fumonisine (classe 2B), e via via scendendo di tossicità fino a quelle “solo” neurotossiche. C’è da dire che, anche se ne sono state classificate così tante, di quelle 300, fortunatamente, avremo la probabilità di trovarne negli alimenti solo una dozzina, mentre la maggior parte è rara a trovarsi e frequenta per lo più i laboratori di ricerca dove le micotossine vengono studiate. Della allegra dozzina, invece, faremo un elenco dettagliato fra poco.

Dove si trovano. Le micotossine infestano svariati alimenti, e i funghi produttori si manifestano con muffe polverose bianche, verdi o nere. Non è detto che la presenza del fungo sia indice della presenza della micotossina, come non è detto che l’assenza di muffe garantisca la non-contaminazione: una volta rimosso il fungo le micotossine possono rimanere, e per di più ancora attive, per lungo tempo. Si possono trovare su tutti i cereali (mais in testa, riso ultimo della lista), sui semi oleosi (soprattutto arachidi e pistacchi di provenienza subtropicale), sul caffè, sul cacao, in molte spezie, sulla frutta essicata con tecniche non adatte, sulla frutta fresca (sì, anche su quella fresca, e sui loro derivati succhi e simili: ricordate gli omogeneizzati di frutta ritirati dal mercato anni or sono per le aflatossine?). Come contaminazione secondaria (nel senso che l’animale ha mangiato foraggi o mangimi contaminati e ce le passa) anche in latte, carni suine e più raramente uova. Le ocratossine possono infestare gli insaccati anche direttamente durante la stagionatura, se mal gestita. I funghi produttori prediligono i substrati di carboidrati e grassi. Si calcola che il 25% dei raccolti mondiali sia infestato da micotossine, mentre secondo dati Efsa il 70% dei mangimi per animali sarebbe, mediamente, contaminato (non per niente gran parte della casistica di studio proviene dalla medicina veterinaria).

Ruolo biologico. Lo scopo della produzione di micotossine da parte di alcuni funghi non è del tutto chiaro, anche se è probabile che sia un risultato evolutivo per la competizione del materiale organico su cui crescono, e che potrebbe fungere da cibo per altri organismi (pensiamo ai cereali ad esempio). In certe condizioni di temperatura e umidità, che potrebbero favorire la presenza di altri “concorrenti”, il fungo produce questi metaboliti tossici tendenti semplicemente a danneggiare l’avversario, sia esso un altro fungo, un batterio, un uccello o un mammifero. Nonostante si trovino, soprattutto in giro per il web, precisissimi quanto azzardati intervalli di temperatura, umidità e pH all’interno dei quali i funghi dovrebbero produrre micotossine, ci sono sempre state le classiche eccezioni, come micotossine prodotte a bassissime temperature (frigoriferi) o in ambienti relativamente asciutti, o condizioni favorevoli che non hanno poi dato esito ad alcuna contaminazione. E’ per questo che non daremo intervalli di temperatura, umidità e pH (e sarebbero anche troppo ampi, dunque inutili), poiché potrebbero dare false sicurezze. Ad esempio si sa che non sono mai state isolate aflatossine al di sotto dei 10° C, ma se la catena del freddo viene a mancare anche solo per qualche ora possiamo stare tranquilli? Con le tecniche moderne di coltivazione, trasporto e stoccaggio di massa, la contaminazione da micotossine è poi tutt’altro che diminuita. L’equilibrio evolutivo raggiunto in decine di migliaia di anni fra micotossine e uomo ne risulta stravolto a causa dei grossi cambiamenti alimentari e di produzione degli alimenti. E’ vero infatti che in Italia e in Europa possiamo ritenerci fortunati, con le normative molto severe su limiti e controlli, ma lo stesso non si può dire dei paesi in via di sviluppo, nei quali colture intensive e stoccaggi un po’ troppo disinvolti portano ad infestazioni all’ordine del giorno, e spesso quei paesi sono nostri grandi fornitori.

Come si misurano e limiti. Con il passare degli anni gli esami di laboratorio per accertare la presenza di una o più micotossine in una derrata alimentare si sono fatti più precisi, economici e sicuri. Ora anche un medio produttore può permettersi un test sui propri prodotti, con semplici kit. I test devono essere precisi anche perché le quantità sufficienti a generare sintomi acuti (rari) o cronici (quelli che ci interessano) sono veramente piccole. Sentirete parlare di micotossine misurate in:

  • ppm: part per million, parti per milione. Corrisponde ai milligrammi per kg (mg/kg). Infatti in un chilogrammo ci sono un milione di  milligrammi. Anche se sembra una quantità piccolissima, in realtà quando siamo a questi livelli la contaminazione è già grave.
  • ppb: part per billion, parti per miliardo. Mille volte più piccola della precedente, corrisponde ai µg/kg (microgrammi per kg: in un kg ci sono un miliardo di microgrammi). E’ l’unità di misura più utilizzata.
  • ppt: part per trillion, parti per trilione. Mille volte più piccola di ppb, un milione di volte più piccola di ppm, corrisponde ai nanogrammi per kg (ng/kg). In un chilo ci sono infatti mille miliardi (un trilione) di nanogrammi.

Vedremo i valori limite elencando le singole tossine, ma per avere un’idea si pensi che il limite europeo generico per l’aflatossina B1 (la più pericolosa) nei cibi è di 2 ppb, mentre per il latte l’aflatossina M1, anche se meno tossica, non può superare le 0.05 ppb, cioè 50 ppt. Sono quantità molto molto piccole, indice di quanto siamo pericolose. Sui limiti ci sono da dire due cose: la prima è che questi valori di soglia sono pensati per le singole micotossine, mentre non è rara l’infestazione contemporanea di più muffe. Un alimento con un valore inferiore al limite di legge per ogni infestante potrebbe essere pericolosissimo per via della somma dei valori delle singole micotossine, alcune della quali hanno effetti sinergici. La seconda è che questi limiti non sono sempre dettati da scrupoli sanitari. Da dati Efsa (European Food Safety Authority) scopriamo che benchè in Europa la normativa sia dettata da motivi di rischio sanitario (per fortuna nostra), in Nord America i valori sono decisi come equilibrio fra interessi economici dei produttori e rischi per la salute, portando all’assurdo che i limiti americani sono mediamente dieci volte superiori a quelli europei (ad esempio 20 ppb per gli alimenti in generale per le aflatossine contro i 2 ppb europei). Per queste ultime, classificate come sicuramente cancerogene, il limite logico sarebbe zero, ma ormai tutti si sono rassegnati al fatto che sia una situazione difficilmente raggiungibile, per come sono gestite le filiere alimentari di massa.

Meccanismi tossicologici. I meccanismi di tossicità delle micotossine si basano sul fatto che sono molecole di bassissimo peso molecolare (dunque, semplificando, “molto piccole”) e molto reattive con il materiale cellulare, reazione che può partire dalla membrana esterna e arrivare a danneggiare lo stesso DNA (e da qui la possibile cancerogenicità).

Gli organi bersaglio sono per la maggior parte quelli destinati a metabolizzare le sostanze esterne potenzialmente pericolose, come fegato, reni, polmoni, ma sono a rischio anche cuore e sistema nervoso. Una volta assorbite nel primo tratto dell’intestino, le micotossine finiscono velocemente nel fegato (l’organo più esposto perché attore principale della detossificazione), poi nei reni e via via negli altri organi. In molti casi l’organismo riesce a detossificare parte delle micotossine e formare metaboliti (spesso ancora tossici) che vengono poi espulsi tramite l’intestino (ad esempio attraverso la bile, se partono dal fegato) o i reni, ma anche dalle ghiandole mammarie (come le aflatossine AfM1 ed AfM2 che possono contaminare il latte), mentre una parte resta a far danni nei vari organi.

Un primo ordine di danni proviene (e questo capita per quasi tutte le micotossine) dallo stress ossidativo che questi metaboliti provocano sulle cellule. Ebbene sì, il danno più diffuso delle micotossine è essenzialmente di tipo ossidativo. Il meccanismo classico è di ossidazione dello strato lipidico (grassi) che protegge la cellula (perossidazione lipidica), con propagazione delle reazioni ossidative che può arrivare a danneggiare anche il DNA. Questo vale per quasi tutte le micotossine, anche le più blande, e già da questo si intuisce quale possa essere un valido aiuto: gli antiossidanti.

Un secondo, ma più micidiale, ordine di danni proviene dalle micotossine più pericolose (aflatossine e ocratossine) e passa addirittura attraverso i tentativi di detossificazione messi in atto dall’organismo, per lo più dal sistema del citocromo P450 (e che cavolo è?!?!? Spiegazione immediata in arrivo, non preoccupatevi). Per comprendere questi meccanismi è utile un rapido colpo d’occhio a quello che succede, in genere, quando una sostanza potenzialmente pericolosa entra in contatto con le nostre cellule, e questo capita continuamente. L’evoluzione ci ha aiutati a costruire un complesso sistema di enzimi e altri meccanismi per attaccare e detossificare queste molecole “straniere”: ce ne sono diversi, e il complesso del citocromo P450 è uno di questi (il nome deriva dalla fluorescenza che emette se colpito da luce ultravioletta con lunghezza d’onda di 450 nm). Si tratta di un insieme di proteine ad azione enzimatica, presente in quasi tutti gli organismi viventi, che agisce su una vastissima gamma di sostanze, ed è coinvolta anche nel trasporto e scambio di varie molecole fra la cellula e l’esterno, fra cui i farmaci. Generalmente, passando fra le grinfie del citocromo P450, le molecole pericolose ne escono trasformate in qualcosa di meno tossico, ma a volte il risultato è anche peggiore della partenza. Per questi rari casi esistono meccanismi successivi che prendono in mano la sporca faccenda. Nel caso delle nostre pericolose aflatossine, ad esempio, il citocromo P450 le trasforma in un ben più pericoloso epossido, una molecola molto più reattiva che è in grado di creare addotti covalenti con il DNA (cioè a causa della molecola che ne inquina la catena, parti del DNA si danneggiano portando a mutazioni, anche cancerose). A questo punto ci può salvare solo la cavalleria, e infatti entra in gioco il meccanismo di emergenza, guidato dall’enzima glutatione S-transferasi (GSTs), coinvolto con il glutatione (GSH) e quindi con i meccanismi antiossidanti endogeni (ricordate?), che riconduce l’epossido a più miti consigli.

Ma qui, come nei migliori racconti di thriller, c’è il colpo di scena che rimette tutto in gioco: l’enzima GSH S-transferasi non è presente allo stesso modo in tutte le specie animali, ed ha una certa variabilità d’azione, anche individuale. Si pensa sia questo il motivo per cui aflatossine e ocratossine abbiano effetti diversi, più o meno gravi, a seconda della specie. Ad esempio il ratto e il topo, apparentemente molto vicini, reagiscono in maniera diametralmente opposta: al ratto basta una quantità irrisoria di aflatossina per sviluppare il cancro al fegato, mentre il topo ne è quasi completamente immune, anche a dosi più alte. La differenza sta proprio nella diversa quantità di GSH S-transferasi, molto elevata e più efficiente nel topo, povera nel ratto. Una cosa simile accade per le scimmie (GSTs più attivo, e questo fa ben sperare per l’uomo), e in più si è visto che somministrando ai ratti farmaci che aumentano la produzione di GSTs essi diventano resistenti all’aflatossina, mentre se priviamo i topi del prezioso enzima i poverini si ammalano alla velocità della luce.

A questo punto il discorso si fa complicato (e pure noioso, direte voi, ma serve a capire come ci fanno male e come difenderci) e per di più le ricerche, recenti, sono ancora per strada. Si cerca di capire quanto un buon sistema antiossidante endogeno ed esogeno, se efficiente e ricco di munizioni, aiuti le nostre difese a neutralizzare le micotossine, e quanto l’abbondanza di quelli alimentari aiuti quelli endogeni. Sappiamo infatti che per l’efficacia e la sinergia del sistema, oltre agli antiossidanti auto-prodotti dall’organismo (endogeni) come il GSH, per il supporto sono molto importanti anche quelli esogeni, che vengono cioè dall’esterno, e quindi dagli alimenti, e questi a loro volta formano una rete di protezione efficace se sono numerosi, vari e abbondanti. Condizione raggiungibile, come volevasi dimostrare, consumando molta verdura cotta e cruda, legumi, frutta, semi oleosi, cereali integrali. La strada, secondo le ricerche, promette bene, e va nella direzione dell’alimentazione naturale.

Per concludere questa parte sui meccanismi tossicologici delle micotossine può essere utile sapere che dalle ricerche risulta protettivo solo un trattamento precedente al contatto con le tossine, e quindi preventivo, mentre sembrano del tutto inefficaci i trattamenti contemporanei o peggio successivi. Questo sembra dovuto al fatto che per contrastare efficacemente le micotossine gli antiossidanti devono avere il tempo di raggiungere le parti della cellula (citoplasma e membrana) dove si svolgerà la battaglia e rimanervi in abbondanza, e questo sottolinea l’importanza di una alimentazione e di uno stile di vita corretto che siano continuativi e costanti.

Tecniche di contrasto. Come dicevamo all’inizio, le micotossine sono in genere estremamente resistenti alle alte temperature (denaturano oltre i 220-240° C), dunque la cottura non fa nulla. Solo la tostatura ha, nel caso del caffè, effetto ad esempio sulle ocratossine, ma come si intuisce si tratta di un trattamento estremo. Ma ci sono tecniche, più o meno convenienti, che vengono usate in fase di produzione e stoccaggio (tralasciamo quelle veramente eccessive come irraggiamento con i raggi gamma o simili), che è bene conoscere:

  • trattamenti antifungini alle colture, che di contro implicano un massiccio uso di pesticidi, per impedire alle muffe di colonizzare i campi.
  • trattamenti antiparassitari contro gli insetti che, banchettando fra i chicchi, rovinano le cariossidi favorendo le muffe nell’attacco dei semi. Avrete certamente sentito parlare della piralide, la simpatica farfalla che, allo stato di larva, scava gallerie nelle pannocchie di mais nelle quali i funghi produttori di fumonisine e aflatossine si trovano poi meglio che in hotel. Anche questi trattamenti portano però ad un massiccio uso di pesticidi.
  • uso di colture transgeniche o OGM, che esprimono geni produttori di sostanze tossiche o repellenti per gli insetti. Ad esempio il celebre mais BT, portatore di un gene del Bacillus thuringiensis (da cui il nome) che produce una tossina ostile ad alcuni lepidotteri fra cui la piralide, o al recente mais OGM con geni tratti da due funghi e un batterio produttori di enzimi che degradano completamente le fumonisine. I risultati di queste tecniche sono controversi, in quanto nonostante l’infestazione in campo sia anche dalle dieci alle cento volte inferiore, non si capisce come mai alla fine il mais prodotto dove queste varietà sono più utilizzate risulti ugualmente contaminato.
  • utilizzo di organismi competitori delle muffe produttrici, come altre muffe della stessa specie ma esenti da micotossine. Ad esempio esiste in commercio un ceppo di Aspergillus flavus appositamente allevato (AF36), che non produce aflatossine, viene aggiunto alle sementi e, se le condizioni ambientali diventano favorevoli ai funghi, almeno la coltura è infestata da una muffa innocua che rimpiazza quella pericolosa, e una volta eliminata la muffa il prodotto è “commestibile”.
  • (andiamo ora sul verde & sostenibile) prevenzione delle situazioni a rischio, con tecniche colturali adatte. Qui il discorso diventa anche di metodo, poiché richiede di coltivare piante solo nelle zone e nei climi adatti, con colture non intensive e da parte di agricoltori non improvvisati, dell’ultima ora o attirati solo dal business (come purtroppo è accaduto: giovani rampanti che, attirati dai rimborsi europei, sono saltati sul trattore e hanno seminato di tutto anche dove non si poteva, coprendo i campi di chimica). Utilizzo oculato dell’irrigazione: sia la siccità che la troppa acqua rovinano la parte esterna del seme (altrimenti piuttosto resistente) rendendolo vulnerabile alle muffe. Trebbiatura dei cereali più lenta (e dunque più costosa) e con regolazione delle trebbiatrici in modo da non rovinare i chicchi. Tutte tecniche malviste dall’agricoltura di larga scala che vuole grandi volumi e velocità di produzione.
  • diluizione di partite contaminate con partite sane (tecnica per lo più vietatissima in Europa, ma scommetto più tollerata altrove) per abbassare i valori medi di micotossine presenti nelle prime.
  • utilizzo di appositi batteri o enzimi che, una volta che il raccolto è nel silos ed il danno è fatto, attaccano direttamente la micotossina e la degradano. Purtroppo la tecnica ancora non ha risolto il fatto che sovente viene rovinato anche il prodotto da decontaminare, modificandone consistenza, odore, colore e sapore (insomma un disastro). In genere il tutto finisce poi come ingrediente di mangimi.

E noi, da parte nostra, cosa possiamo fare? Visto che non possiamo coltivarci da soli i cereali e tutto il resto, e non possiamo neanche controllare tutti i chicchi uno per uno, dobbiamo rassegnarci ad una seppur minima presenza di micotossine in quello che acquistiamo, di tanto in tanto, confidando sugli effettivamente serrati controlli della normativa italiana ed europea e sulle filiere corte. Ma qualche attenzione in più ci può stare. Ad esempio, seguendo i dettami dell’alimentazione naturale, l’uso di chicchi di cereali interi per zuppe, minestre, muesli consente un più facile controllo visivo: un sacchetto con chicchi ammuffiti è evidente. Più difficile il controllo dei cereali se questi sono annegati, come impalpabili farine, nei vari alimenti industriali dalle lunghe liste di misteriosi ingredienti. Se vediamo che una parte di cereali è ammuffita conviene, purtroppo e per sicurezza, buttare anche il resto: abbiamo visto infatti che le micotossine possono essere anche dove la muffa non c’è più. Conoscendo ora quali sono i meccanismi tossicologici delle micotossine, abbondiamo nell’uso di verdure e legumi, frutta e semi oleosi, fonti di preziosissimi antiossidanti. Manteniamo uno stile di vita attivo, poiché come ricorderete la produzione degli antiossidanti endogeni è stimolata dalla moderata attività fisica. E’ bene sapere che l’alcol aggrava, nel fegato, una eventuale presenza di aflatossine od ocratossine, in quanto stimola l’azione del citocromo P450, e dunque la produzione dell’epossido che ne deriva.

Infine, ragioniamo con la nostra testa: si sente spesso dire che il mais OGM sia l’unico modo per abbattere le micotossine, ma allora non ho capito perché in nordamerica, dove viene usato massicciamente, i livelli di micotossine sono comunque alti. I cereali a filiera corta e bio, invece, possono essere più controllati e godere di protezioni “naturali”: ad esempio anche la piralide ha i suoi predatori, se questi ultimi non vengono falcidiati da chili di pesticidi. Pensiamoci. Di principio non sono contrario agli OGM, se fossero fatti con criterio (pilotare e velocizzare la selezione naturale). Sono contrario invece alla stupidità del profitto a tutti i costi.

Ed ora, per concludere, ecco una carrellata delle micotossine di cui si sente più parlare, partendo dalle più pericolose e con qualche dato, apparentemente didascalico ma utile soprattutto per ricerche successive e più approfondite, a chi interessa. Spero che dopo la lettura (e per me la scrittura) di questo post avremo soprattutto più elementi per continuare ad informarci.

AFLATOSSINE (AfB1, AfB2, AfG1, AfG2, AfM1, AfM2, aflatoxicol, AfQ1, … ce ne sono una quindicina). Sono prodotte da funghi del genere Aspergillus: Aspergillus flavus, Aspergillus parasiticus. Sono le più pericolose (classificate dallo IARC, come dicevamo, in classe 1 -sicuramente cancerogene per l’uomo-), soprattutto la B1. Oltre che cancerogene e tossiche per il fegato sono anche immunotossiche e mutagene. Se vengono illuminate da luce ultravioletta con lunghezza d’onda di 360 nm emettono diverse fluorescenze, che possono essere blu o verdi. Da qui le sigle che riportano B (blue) o G (green). Le sigle con M indicano quelle metabolizzate e che si trovano soprattutto nel latte (milk). Chimicamente sono derivati della cumarina, e infestano cereali, semi oleosi, alcuni legumi (fra cui le arachidi), spezie, ma anche frutta essicata e non, e sono molto termoresistenti.

  • AfB1, AfB2: essendo le più pericolose i limiti per gli alimenti sono bassissimi: in media 2-4 ppb (4 come somma di B1 e B2).
  • AfG1, AfG2: sono prodotte dal solo Aspergillus parasiticus. Limiti: 2-4 ppb.
  • AfM1, AfM2: sono i metaboliti idrossilati che l’organismo (ad esempio di mammiferi o uccelli) produce durante la detossificazione di AfB1 e AfB2 rispettivamente. Sono meno pericolose delle AFB e AFG (hanno un potere cancerogeno del 95% minore rispetto alla AFB1) ma i limiti sono lo stesso molto restrittivi (ad esempio 0.05 ppb per il latte, qui in Europa). Serve una contaminazione nei mangimi con AFB1 o AFB2 di circa 200 ppb per ottenere, dopo 24 ore, 1 ppb nel latte.
  • Aflatoxicol, AfQ1, AfP1 e altri derivati delle aflatossine “nobili”: le riportiamo per completezza perché a volte vengono citate, anche se sono per lo più metaboliti prodotti (anche nell’uomo) partendo dalla AfB1 in seguito all’intervento del citocromo P450 (e meccanismi successivi) in fegato e tenue ed escrete per lo più con le feci, e sono ritenute ormai non più tossiche.

OCRATOSSINE (OtA, OtB). Sono prodotte dai funghi Pennicillium viridicatum e Aspergillus ochraceus. Lo IARC le classifica nella classe 2B (possibile cancerogeno per l’uomo) e sono anche nefrotossiche (reni, il principale organo bersaglio), immunotossiche e teratogene (provocano malformazioni fetali). I limiti per gli alimenti sono in media di 3 ppb, e scendono a 0.5 ppb negli alimenti per bambini sotto i tre anni. Sono anch’esse, come le aflatossine, derivate della cumarina e infestano parecchi alimenti, soprattutto cereali e legumi. Come per la aflatossine, i metaboliti derivanti dai tentativi di detossificazione dell’organismo sono o meno tossici (e vengono eliminati con urina e feci), o seguono la via del citocromo P450 con metaboliti molto reattivi dai quali deriva la probabile azione cancerogena. Denaturano solo oltre i 220-240 ° C.

FUMONISINE. Sono prodotte da funghi del genere Fusarium: Fusarium moniliforme e Fusarium proliferatum. Sono classificate anch’esse nella classe 2B (possibile cancerogeno per l’uomo) e sono state isolate solo nel 1988. Sono inoltre epatotossiche (fegato) e immunotossiche, e in misura minore nefrotossiche e cardiotossiche (per inibizione dell’azione degli ioni calcio nel muscolo cardiaco). Nonostante ne facciano una più di Bertoldo sono tuttavia circa 1000 volte meno tossiche di aflatossine ed ocratossine, infatti i limiti sono 1000 volte più elevati. Erano di 2000 ppb fino al 2007 ma poi sono stati alzati a 4000 ppb dopo varie pressioni del comparto agricolo. Per i bambini piccoli il limite è rimasto invece a 200 ppb. La temperatura le denatura solo oltre i 220° C e hanno una struttura simile alla sfingosina, molecola prodotta dall’organismo che fra le altre funzioni è un antitumorale endogeno. Questa similitudine ha l’effetto di inibire la sua sintesi, privando l’organismo del suo potente effetto protettivo e sembra essere la causa della loro possibile cancerogenicità.

ZEARALENONE (conosciuto anche come ZEA o micotossina-F2). E’ prodotto dal genere Fusarium: Fusarium graminearum, F. culmorum e F. equiseti e infesta soprattutto i cereali, con il testa il solito mais. E’ considerato poco tossico, e questa micotossina ha per lo più un effetto ormone-simile con il risultato di alterare il ciclo riproduttivo, e infatti la medicina veterinaria ne se qualcosa per i danni prodotti negli allevamenti in seguito all’utilizzo di mangimi contaminati, aggravati dalla ventilata possibilità di un suo passaggio nel latte. Come effetto più subdolo sembra possa agire da promotore o co-carcinogeno per il cancro alla cervice uterina ed è sospettato di essere teratogeno (danni al feto).

TRICOTECENI (DON, T-2, HT-2). Prodotti dal genere Fusarium: Fusarium culmorum, F. graminearum, F. poae, F. sporotrichioides. Sono un gruppo di tossine che infestano i cereali e i legumi, spesso divise in tricoteceni di tipo A e tipo B (i primi per lo più prodotti in campo durante la coltivazione, i secondi in stoccaggio). Comprendono:

  • Deossinivalenolo (DON, di tipo B), conosciuto anche come vomitossina per l’effetto di “rifiuto del cibo” che provoca negli animali d’allevamento. I limiti per l’uomo sono fissati in 750 ppb (che scendono a 200 ppb per gli alimenti destinati ai bambini piccoli).
  • NIvalenolo (tipo B), per lo più immunotossico (causa scarsa resistenza alle infezioni).
  • Tossine T-2 e HT-2 (tipo A), prodotte da F. poae e sporotrichioides, sono epatotossiche e neurotossiche.

I tricoteceni sono sinergici con lo zearalenone, del quale potenziano gli effetti e con il quale infestano spesso contemporaneamente le stesse derrate.

PATULINE. Prodotte dai generi Pennicillium, Aspergillus, Byssochlamys. Infestano la frutta e i cereali, ma sono conosciute soprattutto per la contaminazione delle mele e altra frutta fresca (nell’ottica degli alimenti per i bambini molto piccoli come mousse o succhi di frutta). Resistono alle alte temperature fino a circa 110° C, la pastorizzazione (70-75° C) fa loro un baffo ma vengono inattivate dalla fermentazione alcolica (mele -> sidro). Sono epatotossiche e i limiti in Europa sono di 25-50 ppb (alimenti solidi o liquidi) e 10 ppb per i bambini piccoli. Negli anni ’40 era stata isolata ed utilizzata come antibiotico dal genere Pennicillium, salvo scoprirne poco dopo la tossicità.

RUBRATOSSINA. Prodotta da Pennicillium rubrum e Pennicillium purpurogenum, è epatotossica e infesta i cereali.

ERGOTINE. Prodotte da Claviceps purpurea. Chiudiamo idealmente con queste tossine con le quali abbiamo iniziato, di solo apparente scarsa tossicità, per lo meno a basse dosi (alle quali la sua neurotossicità si esprime come un potente allucinogeno). Ad alte dosi come abbiamo visto può avere effetti ben più gravi per via della vasocostrizione che impedisce al sangue di irrorare le estremità, che necrotizzano facilmente. Nonostante siano associate alla segale, per via della segale cornuta, contaminano anche gli altri cereali. I lori effetti sono dovuti ad una serie di alcaloidi (ergometrina, ergotossina, ergotinina, ergometrinina, ergotamina) che idrolizzano in acido lisergico, il responsabile della tossicità finale. Oggi sono meno diffuse per i maggiori controlli sui semi nelle fasi precedenti la macinazione, nelle quali la presenza del fungo è evidente (vedi foto iniziale).

Ultimo aggiornamento: gennaio 2016

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(1) Il Salvagente, numero 20 del 20-27 maggio 2010

(2) Link al documento che contiene vari dati del Ministero della Salute (2007)

(3) Commodity: è uno degli aspetti più evidenti della globalizzazione: si definisce in questo modo un bene così standardizzato che non importa chi sia il singolo produttore, e che si scambia sui mercati con quotazioni simili alla borsa. E’ indifferente che lo zucchero venga dal Canada o dalla Cina, visto che è considerato assolutamente identico. Sono ormai diventati commodities, oltre ai cereali e alle loro farine, il latte e molti altri alimenti.

(4) Chi consuma vorrebbe limiti più bassi, chi produce più alti. Ma, almeno per questa volta, in medio non stat virtus…

L'agricoltura chiede limiti più alti

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Aflatossine 2012, un anno difficile

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Per il momento resistiamo

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Pubblicato da: pades | 16 marzo 2013

Macrobiotica, mediterranea da sempre

Se siete arrivati qui da un motore di ricerca digitando “macrobiotica”, ho solo poche righe per convincervi a continuare, e ce ne metterò poche di più a dimostrarvi che la macrobiotica non è miso, tofu, tamari, alghe e umeboshi, ma è nata qui, nel bacino del Mediterraneo, più di 2400 anni fa.

Macrobiotica mediterranea

Macrobiotica mediterranea

Le origini. Immaginate di essere nella Grecia antica di 2400 anni fa, intorno al 430 a.C. Potreste imbattervi in un personaggio molto innovativo, che va diffondendo le sue nuove idee su salute e malattia: è Ippocrate di Kos. Sono gli anni di Socrate e dello splendore ellenico, dei grandi fermenti intellettuali. Già nel suo scritto “La medicina antica” Ippocrate critica aspramente la precedente concezione filosofica, trascendente o divina delle malattie e delle cure, insistendo invece sul fatto che il perseguimento della salute e la cura dei malanni richieda osservazione, studio e catalogazione, coinvolgendo anche ambiente e alimentazione, nei quali si possono cercare le cause. Ma c’è di più: gettando le basi del metodo scientifico sostiene che la medicina non deve essere statica e immobile come le credenze e le superstizioni dell’epoca, e non deve accontentarsi di quanto scoperto ma debba evolversi: “il resto sarà poi scoperto nel futuro”, scrive con straordinaria lungimiranza. Un pensiero, per l’epoca, estremamente innovativo.

Ma è in un’altra opera che Ippocrate scrive ciò che ci interessa. Nel suo “Arie, acque, luoghi” descrive, per mezzo di un interessante excursus geografico e antropologico, come l’ambiente in cui si vive e si hanno le radici condizioni e determini la costituzione umana, ed eventualmente anche le sue malattie o la sua longevità (lunga vita). Ed è proprio qui, nel IV capitolo, che le parole macros (μακρος, lungo) e bios (βιος, vita) vengono usate per la prima volta unite in un’unica parola (anche Erodoto, negli stessi anni, usa il neologismo con lo stesso significato nel suo Storie, parlando di popolazioni africane dotate di lunga vita), ponendo in macrobios (μακροβιος) le origini della futura parola macrobiotica (e del termine che in greco ha poi assunto il significato di longevo).

Macrobios

Macrobios, Ippocrate

Riassumendo con parole moderne, Ippocrate sostiene che l’uomo sia molto legato all’ambiente, all’evoluzione (antenati) nel proprio luogo di origine, al cibo che in quei luoghi si è sempre procurato (consiglia già allora pane integrale e cibi semplici). Determinante per la sua salute è l’armonia con l’ambiente e il cibo, che si risolve, se ben perseguita, nell’armonia degli organi interni fra loro e dunque nella salute e longevità.

Attraverso i secoli. Questa filosofia di vita, oltre a dare origine alla medicina moderna in occidente, affascina e convince medici ed eruditi per secoli, attraversando l’Impero Romano e il medioevo come metodo ippocratico per favorire la salute. La parola macrobios si ritrova anche negli scritti (che riportano ampi stralci di Ippocrate) del medico Galeno, di origini turche e vissuto intorno al 200 d.C., che studia la medicina ippocratica e la porta a Roma, alla corte imperiale. E’ tramite lui che l’ippocratismo influenza la medicina fino al 1500. Nel frattempo scienza e progresso tecnologico avanzano, e verso la fine del 1700, con l’inizio della rivoluzione industriale, comincia già a delinearsi il grosso conflitto, giunto fino ad oggi, fra l’opera tecnologica dell’uomo e la natura, con l’effetto collaterale di un suo allontanamento da essa, dalle sue leggi e dai suoi ritmi. Molte persone si spostano dalla vita agreste alle città, che diventano sempre più grandi, affollate e, per l’epoca, alienanti e innaturali.

Makrobiotic copertina

Makrobiotik copertina

La macrobiotica moderna. In questi anni e con queste premesse, più precisamente nel 1796, il medico ippocratico tedesco Christoph Wilhelm Hufeland pubblica il suo “Macrobiotica, ovvero l’arte di prolungare la vita umana” (“Makrobiotik oder die Kunst, das menschliche Leben zu verlängern”, vedi copertina qui a lato). Diviso in due parti (la prima un’ampia panoramica su stili di vita, persone e luoghi, paragonabile per certi versi all’Arie, acque e luoghi di Ippocrate, la seconda con consigli pratici ed etici), il libro auspica un ritorno alla natura e alla vita semplice. Rappresentativa una frase (pag. 136 del vol. I della traduzione italiana del 1799 di Luigi Careno):

“Più che l’uomo resta fedele alle leggi della natura, tanto più egli vive, ma quanto più se ne allontana, tanto più presto si avvicina alla morte; e questa è legge assolutamente universale.”

Ci sono già dunque i germi della corrente di pensiero che propugna la difesa della natura ed un ritorno ad essa, come contrapposizione alla insalubre vita moderna e industriale che in quegli anni sta appena iniziando (e già molti hanno capito che qualcosa non va…). Il libro ha molto successo, viene subito tradotto in diverse lingue e trova un posto nelle biblioteche di tutti gli studiosi europei. Ne parla anche Leopardi, intorno al 1820, ovviamente ironizzando (nel suo stile) sul fatto che prolungare una vita infelice sia poco utile. Fatto sta che con Hufeland il termine macrobiotica è ormai ufficialmente nato:

La macrobiotica di Hufeland

La macrobiotica di Hufeland

La convinzione che una vita e un’alimentazione naturali siano preferibili all’alienante civiltà industriale si rafforza sempre più, e non a caso qualche decina di anni dopo nascono il naturismo e l’igienismo (dal greco υγεία [ygeia], salute – acqua e sapone non c’entrano), sempre di stampo ippocratico, che arrivano all’apice a cavallo fra 1800 e 1900 e fino all’alba della seconda guerra mondiale. Il disastro che è stata la guerra, oltre a frenare per anni la cultura naturista ippocratica, ha avuto pure il demerito di dare inizio all’industrializzazione del cibo, pratica richiesta da un fabbisogno di alimenti a lunga conservazione, trasportabili e a buon mercato per le truppe e per le popolazioni schiacciate dall’economia di guerra e dalla successiva ricostruzione. Ci vogliono decenni perché i movimenti naturisti riguadagnino seguito nel largo pubblico ormai legato a questo cibo comodo e allettante, fino ai movimenti giovanili-naturistici degli anni ’50-’60, con le note influenze di filosofie orientali e sentimenti di protesta contro l’alienante industrializzazione della vita. E’ in questo terreno fertile che il giapponese  Yukikazu Sakurazawa, che dopo essersi trasferito in Francia assume il nome di Georges Ohsawa (poi George, senza la “s”, per gli anglofoni), riesce a far conoscere la sua personalissima visione dell’alimentazione. Conosce sicuramente gli scritti di Hufeland e dei naturisti, ma vi affianca generose dosi di filosofia e tecniche alimentari orientali. Comincia a chiamare il suo punto di vista “macrobiotica” alla fine degli anni ’50, e da allora per molto tempo, non si sa bene perché, viene associato tout court al termine, tanto che fino a pochi anni fa ne viene addirittura considerato l’inventore (3)(4). Non è ovviamente questa la sede per un’analisi delle sue opere, ma la deviazione rispetto alla solida strada ippocratica e di Hufeland è stata grande e stranamente poco contestata: a parte l’introduzione arbitraria di tutta la teoria dello Yin e dello Yang (ricordate, all’inizio, che Ippocrate già criticava l’applicazione della filosofia alle questioni di salute?)(1) vengono introdotti precetti alimentari poco naturali come l’eccessiva cottura, le onnipresenti frittura e tostatura, la limitazione della frutta e di molte verdure crude e delle solanacee in toto, l’uso di alimenti assolutamente non tradizionali in occidente e l’eccessivo uso di sale, solo per citarne alcuni. Insomma, uno strano stile alimentare che però trova facile presa in una società già sofferente di un generico appiattimento culturale, nella quale si sente il bisogno di apparire originali e alternativi, e in cui è molto più comodo bersi tutto quello che ci propinano senza porsi dubbi, approfondire, studiare (2). Da qui alla zuppa di miso e alghe anche a colazione, il passo è stato breve.

La vera macrobiotica. E quindi, direte voi? E quindi quello che serve è tornare sulla strada originale (culturale e storica) della macrobiotica, ippocratica e naturista come ha attraversato la storia negli ultimi 2400 anni, superando una volta per tutte la deriva orientaleggiante. La macrobiotica deve essere un modello (alimentare e di vita) che abbia come base la natura, l’evoluzione dell’uomo e degli alimenti che si è scelto per prove ed errori lungo i millenni (non esiste un cibo adatto all’uomo, è l’uomo che si è adattato ai cibi), un cibo che deve essere semplice, tradizionale (nel senso di radicato nella storia evolutiva e culturale), regionale (legato all’area geografica dove ci si è evoluti) e stagionale (che segue i ritmi e i cicli della natura). Un modello che si confronti (al giorno d’oggi è tassativo) anche con la scienza (e infatti proprio dalla scienza riceve ogni giorno sempre più conferme). Un modello che punti all’armonia dell’uomo con l’ambiente dove vive (dunque, oltre al cibo, anche stile di vita, etica e sostenibilità). Ed è perciò un modello che può (e deve) essere diverso nelle varie parti del mondo, nelle quali le varie etnie hanno avuto evoluzioni differenti: ci sarà, certo, una macrobiotica giapponese (ma probabilmente più simile alla dieta degli abitanti di Okinawa che a quella di Ohsawa), una macrobiotica africana nelle sue varie zone climatiche, una macrobiotica nord o sud americana (ma studiando le diete dei nativi, dagli Inuit del Canada agli Incas del sud America, non certo il coacervo di abitudini dei colonizzatori moderni) e così via. La nostra zona mediterranea, di tradizione greco-etrusco-romana, è la culla ideale di quella che dai primi anni ‘90 ho definito macrobiotica mediterranea, che è l’oggetto di questo blog (vedi anche il riquadro a lato “la macrobiotica mediterranea in 20 parole”).

Dunque dobbiamo pensare alla macrobiotica come ad un modello di vita (come peraltro sosteneva anche Ohsawa) che deve rimanere nella direttrice ippocratica e naturista, e non va intesa come una semplice dieta alla moda, men che meno solamente ‘orientale’.

E ripartiamo da qui.

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Ma perché, insomma, questa invettiva in difesa della parola ‘macrobiotica’? Perchè non mi piace la superficialità con cui al giorno d’oggi si travisano e si usano a piacimento i significati delle parole, e perchè non schierarsi contro gli errori e le ingiustizie equivale ad accettarli.  Non da ultimo la parola è eufonica (ha un bel suono), è sempre moderna, funge egregiamente da contenitore per un modello che può spaziare dall’alimentazione allo stile di vita all’etica, e perché è la sintesi dell’origine e del percorso che ha seguito dall’epoca della Grecia antica, ai Romani, fino a noi. A pensarci bene, probabilmente gli stessi motivi per cui anche Hufeland, all’epoca, la usò.

“Lo studio senza un’applicazione pratica è inutile, l’applicazione pratica senza lo studio pericolosa”  (G. Ohsawa)

(1) Non sto dicendo che non esistano energie più sottili di quello che appaia, nel cibo che mangiamo. Ad esempio fino a qualche anno fa parlare di antiossidanti negli alimenti era come parlare del bosone di Higgs in fisica. Nel futuro ci sono la nutrigenomica, la nutrigenetica, tutte cose che la scienza comincia a conoscere solo ora ma nelle quali la filosofia non c’entra, anche se appaiono ancora eteree. In una pianta commestibile è più probabile che le radici siano più “riscaldanti” delle foglie perché hanno più amidi a catena lunga, non perché crescono verso il basso e quindi sono più Yang. Inoltre, spesso viene da pensare che l’equilibrio ottenuto da due forze che tirano in direzioni opposte sia più simile ad una tensione. L’armonia è un’altra cosa.

(2) Ho davanti a me una edizione del 1986 de “Il nuovo libro della macrobiotica” di Michio Kushi, allievo di Ohsawa. A pagina 34, parlando della storia della macrobiotica, cita Hufeland. Quanti, dal 1986, hanno avuto lo spirito di domandarsi chi fosse e approfondire?

(3) Ohsawa rimase colpito da Hufeland, tanto che, secondo le cronache, volle incontare un suo discendente in Germania, nel 1958. Nel 1959 scrisse “Zen Macrobiotics”, che venne pubblicato nel 1960. Fu il primo uso ufficiale del termine “macrobiotica” da parte di Ohsawa, a parte (si dice) un inciso a nota di una traduzione in giapponese di “Man, the unknown” di Alexis Carrel, che curò tempo prima, ma che ancora non sono riuscito a reperire.

(4) Una chicca documentale: in realtà il binomio Macrobiotica-Hufeland è stato sempre ben noto a chi si interessava di salute e alimentazione, come dimostra questa citazione tratta dagli atti del Senato del 1952, nella quale il senatore Giuseppe Alberti (medico) interviene nella discussione legata a longevità e sistema pensionistico citandoli con disinvoltura (cliccare per ingrandire). E’ solo uno dei tanti esempi che dimostrano come la macrobiotica di Ohsawa sia stata una “grande novità” solo per chi era superficialmente informato. Da notare che al momento della citazione (nel 1952) Ohsawa ancore neanche ci pensava al termine “macrobiotica”, che nella cultura occidentale era invece già diffuso.

Macrobiotica ben prima di Ohsawa

Macrobiotica, ben prima di Ohsawa

Pubblicato da: pades | 4 marzo 2013

Premio etichetta del mese (3)

Per saperne di più vedi anche il numero zero.

Pane PEMA

Pane PEMA

Come anticipato, contrariamente a quanto accade per le etichette meritevoli di aspre critiche, per quelle meritevoli e basta farò nomi e cognomi. Visto che molti mi continuano a scrivere circa acido fitico e fitati, questa volta elogio un prodotto che considero eccellente anche per questo motivo.

Ho tentato di ricordare da quanto lo conosco e lo consumo ma è da così tanto tempo che non saprei dare un numero preciso di anni. Adesso, per giunta, è arrivata anche la versione “bio”, dunque il premio del mese è più che meritato.

Dicevamo, riguardo l’acido fitico: questo pane PEMA integrale è prodotto (www.pema.de/it) in un modo che certamente azzera acido fitico e fitati: i chicchi (da filiera cortissima), dopo essere stati lavati, vengono tenuti a mollo fino a stimolare la germinazione (e già qui, fitati addio), dopodichè vengono spezzati senza ridurli in farina (vedi foto sotto) e lievitati con pasta madre per 72 ore (e se ancora ce ne fosse stata traccia, ora di acido fitico non ce n’è proprio più). Una cottura lenta e a bassa temperatura conclude degnamente la preparazione (viene venduto già affettato, e nella confezione in basso a sinistra, quella verdina, è porzionato -lo uso come spuntino-).

Grani non troppo macinati

Grani non troppo macinati

Penso sia un ottimo modo di assumere cereali integrali, e a me piace molto. Perfino nei negozi di alimentazione naturale ne esistono “imitazioni” che però non dichiarano con tale precisione il processo produttivo e spesso non usano neanche pasta madre. Questo è un tipico caso di prodotti da supermercato migliori di quelli da negozio specializzato, infatti il pane PEMA lo trovo ad esempio da Esselunga e Coop.

Etichetta ingredienti

Etichetta ingredienti

Nuove versioni "bio"

Nuove versioni “bio”

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